In principio era il verbo e il verbo era presso dio e il verbo era dio.
Il presepe è la rappresentazione della nascita di Gesù. Il termine deriva dal latino prae (innanzi) e saepes (recinto), ovvero il luogo che ha davanti un recinto (cioè, la mangiatoia).
Questo, invece, non è un presepe ma il Metasaepe, cioè una rappresentazione “che va oltre il recinto”.
Il Metasaepe si sviluppa su due piani, un piano superiore, chiamato ipogeo, e un piano inferiore, chiamato epigeo. I due termini, presi in prestito dalla Botanica, indicano le diverse parti che compongono le piante:
l’epigeo è la porzione visibile, quella che si sviluppa in superficie (cioè, il fusto, i rami, le foglie),
l’ipogeo, invece, è la parte nascosta, quella che vive sottoterra, nutrendo e sostenendo la prima (cioè, le radici).
Nel Metasaepe, l’epigeo rappresenta la realtà sensibile, quella percepibile attraverso i sensi, il mondo esterno che ci circonda… che è in superficie… quello che appare.
L’ipogeo, invece, rappresenta il mondo interiore, il soffio vitale, il mondo nascosto che sovrasta e sottende il primo. Infatti, in ragione della sua natura spirituale (il soffio vitale), l’ipogeo si eleva e si erge sopra l’epigeo, quindi lo sovrasta. Ma, al tempo stesso, ne costituisce la forza propulsiva che lo anima e lo tende da sotto (per cui lo sottende).
In questa rappresentazione la disposizione dei due piani è, però, invertita: l’ipogeo sta sopra e l’epigeo sotto. Tale contraddizione è intenzionalmente voluta per conferire un valore ascetico al percorso che, dall’epigeo conduce all'ipogeo, per raggiungere il quale bisogna "elevarsi".
La scena del Metasaepe è dominata dall'acqua e questa ne svela il tema fondamentale. L’acqua rappresenta l'elemento archetipo degli antichi filosofi, il principio generante, il simbolo della vita, la vita degli uomini.
Col suo fluire silenzioso ed eterno, l’acqua, unico elemento vivo, in movimento del Metasaepe, attraversa, sia trasversalmente che verticalmente, entrambi i piani, coinvolgendo non solo l'ipogeo ma anche l'epigeo.
La sua sorgente è molto, molto lontana… oltre l’ipogeo, in un punto quasi impercettibile da cui promana una flebile luce siderale che riconduce alla sua antica origine cosmologica… indovata negli estremi confini dell'universo[1].
Subito dopo il distacco dalla sorgente, l’acqua viene indotta a confluire nell'angusto alveo del fiume per seguirne, senza libertà di scelta, un percorso obbligato… venendo prima convogliata, poi precipitata, quindi ristretta e stipata… incanalata e rilasciata… per finire la propria corsa nelle stagnanti paludi dell’epigeo, pullulanti di putridume e fetore di morte.
«In simil forma passan le prosapie umane»[2]… allo stesso modo fluisce la vita degli uomini: libera di scorrere ma, come l’acqua, costretta a farlo su un binario obbligato e invisibile che ne limita la libertà e ne svilisce l’essenza.
Nel suo insieme, il Metasaepe vuole rappresentare la celebrazione del risveglio della coscienza umana dal torpore mentale che narcotizza l’intelletto degli uomini, il riappropriarsi della propria essenza, la nascita a una nuova vita senza passare attraverso la morte, è il risalire delle acque del fiume alla sorgente dalla quale un giorno sono state sottratte con la promessa del mare[3].
La natività diviene così l'epilogo di un percorso interiore che si conclude con il parto (spesso doloroso e travagliato) di una vita libera, vera e piena di luce[4], governata dalla consapevolezza di sé e di ciò che la circonda.
[1] Pare che a portare l’acqua sul nostro pianeta siano state le comete e gli asteroidi provenienti dagli estremi confini dell’universo e che hanno impattato la Terra nel corso dei suoi quasi 5 miliardi di anni di vita.
[2] «In simil forma passan le prosapie umane»: questa espressione è tratta dalla poesia Le nuvole di Giacomo Zanella (1820-1888) (In Giacomo Zanella “Poesie”, La Locusta, Vicenza 1983, p. 64).
[3] Il destino naturale della gran parte dei fiumi è il mare. In esso l’acqua chiude il suo ciclo vitale (iniziato con l’evaporazione). Tuttavia, ci sono alcuni fiumi che non raggiungono il mare e muoiono in un lago o sprofondano e si perdono sottoterra.
[4] Qui, e in molti altri punti, il termine luce viene utilizzato come metafora di conoscenza.
L’epigeo, il piano inferiore, la realtà esterna, è il risultato di un lungo processo evolutivo. In origine, là dove la storia si perde nella memoria dei tempi, l'uomo non ancora Uomo, viveva dominato dagli istinti. Li assecondava e li soddisfaceva direttamente, cioè con scarso contributo dell’intelletto, proprio come gli altri animali.
In questo stadio evolutivo, detto fase della libertà biologica, l’uomo era costretto a una vita pessima, breve e piena di problemi; doveva difendersi non solo dagli altri animali ma anche dai suoi simili (homo homini lupus)[1]. La conservazione stessa della specie ne era minacciata e l’istinto dominante era quello della sopravvivenza.
Con il progressivo sviluppo dell'intelligenza, l'uomo comprese che la vita di gruppo era più vantaggiosa perché garantiva una maggiore sicurezza e una migliore e più appagante esistenza. Ma per fare questo, egli doveva rinunciare ad una parte della propria libertà, imporsi dei ruoli e darsi delle regole. Nacquero così le prime comunità e le prime forme di civiltà. Nasce lo stato sociale.
In questo contesto l’uomo impara a comunicare, amplia le sue conoscenze, usufruisce e si avvantaggia delle esperienze altrui, condivide con questi sensazioni e sentimenti. Si viene così a creare una sorta di coscienza sociale che, oltre ad essere condivisa, viene anche trasmessa alle nuove generazioni, diventando così l’anima dell’umanità.
Questo eccezionale patrimonio collettivo (la coscienza sociale) si espande e si accresce, acquisendo un ruolo e un peso sempre più determinante, tanto da condizionare l’esistenza e l’essenza della natura umana[2]. La mente stessa non potrebbe esistere senza la coscienza sociale di riferimento.
Un uomo che nasce su un’isola deserta resta poco più di un animale; mentre un uomo che nasce in un contesto collettivo e cresce all’ombra della coscienza sociale diventa un essere superiore … un nano sulle spalle del gigante[3].
Nello stato sociale l’uomo non deve più lottare per la sopravvivenza né per la conservazione della specie. Gli istinti, però, che sono indelebilmente impressi nel codice genetico, non scompaiono e, di fronte alle nuove condizioni ambientali, subiscono un processo di differenziazione fenotipica[4] che porta l’istinto di sopraffazione a sostituire quello di sopravvivenza nel ruolo dominante. Accade così che gli individui dotati di maggiori capacità intellettive prendano il sopravvento sugli altri, ricorrendo non alla forza fisica ma all’astuzia dell’intelletto e sfruttando proprio i canali della coscienza sociale, consapevoli della grande influenza che questa esercita sulle menti, in particolare di quelli (la gran parte) che non sono consapevoli della sua esistenza. Ed ecco il potere fare la sua comparsa e imporsi nelle sue varie forme, economico, politico, sociale, psicologico.
Inoltre, l’uomo non più costretto a lottare per la sopravvivenza inizia a pensare e a porsi domande sui fenomeni che lo circondano, sul senso della vita e della sofferenza; comincia ad aver paura della morte. L’ansia degli interrogativi e il timore dell’eterno sonno lo portano ad accogliere e accettare qualunque risposta, vera o presunta, purché vestita di certezza. Ed ecco farsi avanti la religione.
Accade quindi che la coscienza sociale si inquini di pseudoverità, dogmi, menzogne e storture varie, abilmente confezionati, che, ben presto, divengono parte integrante e strutturale del pensiero collettivo, venendo acquisiti e assimilati come certezze consolidate e scontate e, per questo, trasmesse alle nuove generazioni.
Nasce così il sistema: una componente di deriva, occulta e astratta, della coscienza sociale; un insieme di regole, divieti, principi e vincoli, sviluppato per generare una realtà simulata in grado di tenere sotto controllo gli individui. Il sistema dice cosa fare e come pensare, cosa essere e come vivere… e questo è più di quello che la maggior parte degli uomini è stata educata a sperare di ottenere. Dietro a tutto quello che essi vedono, sentono, pensano, desiderano, anelano… c’è sempre il sistema. Una trappola, una terribile e invisibile trappola nella quale l’uomo stesso cade, inconsapevole finanche di esserci dentro[5].
Nel complesso, quindi, il mondo dell’epigeo deve essere pensato e letto nella duplice dimensione di risorsa e di problema. La possibilità di farne un essere superiore, la sicurezza ambientale, la tranquillità, l’identità conferita… sono tutte risorse che l’epigeo garantisce agli individui che lo abitano.
Invece, la condizione di sottomissione, la spersonalizzazione, l’acquiescenza[6] e il sonno della ragione, rappresentano il problema, il prezzo da pagare per i privilegi forniti che, attraverso il sistema, l’epigeo chiede ai suoi “cittadini”.
Gli elementi ambientali attraverso i quali l’epigeo si caratterizza e coi quali intreccia la vita degli uomini sono il recinto, il portico degli dèi vacui, lo stagno della fonte, l’albero invertito e la scala del tempio
[1] Nel Leviatano Thomas Hobbes (celebre filosofo inglese del XVII secolo) espone la propria teoria sulla natura umana. Nello stato di natura ognuno ha diritto a ogni cosa e, a causa della scarsità dei beni disponibili, gli uomini ingaggiano una guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes) e l’uomo diviene un lupo divoratore per ogni altro uomo (homo homini lupus). In questa fase la vita è spiacevole, grezza e breve (nasty, brutish, and short).
[2] Jerome S. Bruner (famoso psicologo statunitense del XX secolo) sostiene che la coscienza sociale (che lui chiama Cultura) è il principale artefice nella formazione dell’impostazione mentale degli uomini; essa gli fornisce gli strumenti per comprendere e organizzare il mondo. La mente stessa non potrebbe esistere senza la coscienza sociale di riferimento.
[3] Il gigante rappresenta la coscienza sociale generata dagli individui delle generazioni precedenti. La metafora, attribuita erroneamente a Isaac Newton, ha origini medioevali, se non più antiche. Il primo a utilizzarla sarebbe stato Bernardo di Chartres. Scrive Giovanni da Salisbury nel suo Metalogicon del 1159: Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos, gigantium humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvenimur et extollimur magnitudine gigantea. Diceva Bernardo di Chartres che siamo come nani assisi sulle spalle dei giganti, cosicché possiamo vedere più cose e più lontano di loro, non perché abbiamo una vista più acuta o altra particolarità fisiologica, ma poiché siamo sollevati più in alto dalla loro mole gigantesca.
Metafore simili sono riportate anche nella mitologia greco-romana. Si racconta, infatti, che il gigante Orione durante un periodo della sua vita era stato accecato. Efesto, però, impietositosi, lo affidò alla guida Cedalione, che gli si sedette sulle spalle e lo guidò a est, dove Eos, dea dell’aurora, gli ridonò la vista.
[4] Per fenotipo si intende l’insieme dei caratteri fisici esterni di un individuo, derivanti dall'interazione dei geni con l’ambiente. In pratica, uno stesso gene può manifestarsi in forme diverse per effetto di ambienti diversi. Un esempio è quello dei gemelli omozigoti, i quali hanno gli stessi geni. Se i gemelli crescono nello stesso ambiente, sottoposti agli stessi stimoli, tenderanno ad invecchiare (in senso biologico) in modo simile e avranno fenotipo simile (cioè, analoghe caratteristiche sia fisiche che comportamentali). Se, invece, i gemelli crescono in ambienti diversi tenderanno, per effetto dei diversi stimoli ambientali, ad invecchiare in modo diverso e ad assumere caratteristiche fenotipiche diverse.
[5] Per Sistema si intende un insieme di entità (persone comprese) connesse tra di loro tramite relazioni definite da regole che, spesso, generano strutture gerarchiche o di altro tipo. Il sistema è assimilabile a un grande organismo che riunisce in sé tutta l’energia mentale ed emotiva dei suoi partecipanti, una sorta di mente collettiva. Questo organismo cresce e diviene, a un certo punto, talmente grande da essere indipendente dai suoi singoli membri. Per cui, si evolve autonomamente, inglobando sempre più soggetti. Accade così che una miriade di individui, “senzienti ed inconsapevoli”, nutrano qualcosa che sta al di sopra di loro, apparentemente più importante e necessario… un ideale… un progetto… un sistema. Un club, un partito politico, un movimento, un’associazione, uno stato, una comunità religiosa… sono esempi reali di sottosistemi semplici che vanno a costituire il grande sistema.
Il sistema rappresenta una delle componenti della coscienza sociale e viene visto in maniera negativa, come un elemento di deriva di essa. L’altra faccia della medaglia.
Il sistema instilla nella mente dei suoi membri idee di ogni genere, verità preconfezionate, abitudini, tabù, consuetudini sociali, paure, speranze… al fine di generare prima e perpetuare poi la dipendenza da esso. L’annullamento dell’individuo è un obiettivo fondamentale del sistema. L’uomo gli cede energia ma per farlo è necessario che sia addormentato, non deve essere “presente” a sé stesso. Nel film The matrix, le macchine, per assicurarsi l’energia per la sopravvivenza, addormentano l’uomo, privandolo della coscienza, dell’individualità e della luce, quella stessa di cui poi si cibano.
Il sistema agisce dovunque. Interviene nel percorso formativo degli individui, nella sfera religiosa e in quella familiare, nelle relazioni sociali e nei media. Gli uomini vengono educati sin da piccoli a rinunciare a sé stessi. Vengono programmati come macchine, privati della loro coscienza e resi passivi. Nel sistema trovano quell’identità che, istintivamente, percepiscono di aver perduto perché qualcuno ha finito per dire loro chi fossero... e lì si sono fermati. Obbediscono ciecamente al sistema e agiscono come automi al punto di lottare per difenderlo. Diversamente, rischiano di finirne stritolati o espulsi.
[6] L’acquiescenza è l’accettazione tacita, passiva e remissiva della volontà altrui.
Il recinto delimita lo spazio dell’epigeo entro il quale gli uomini sono costretti a vivere. Più che un vero spazio fisico si tratta di contenitore mentale, una sorta di luogo della mente e dell’anima, comune a tutta l’umanità: è la dimora della coscienza sociale. All’interno del recinto gli individui vengono generati, crescono e conducono le proprie esistenze, beneficiando degli straordinari vantaggi che la coscienza sociale fornisce ma subendone anche il condizionamento del sistema, al quale, inconsapevolmente, abdicano la propria volontà e l’intera esistenza.
Dall’aspetto bello e inquietante, il recinto rappresenta lo strumento di “contenimento” del sistema, le sbarre della gabbia che imprigiona gli uomini e li condanna alla triste inesistenza in un mondo nel quale essi si illudono di vivere, di agire, di scegliere, di essere felici… ma sono, invece, prigionieri e tristemente infelici. Sbarre fatte di vincoli, leggi morali, tabù, ideologie, ignoranza e tanta, tanta suggestione. Sbarre delimitanti un mondo dove non c’è spazio per la ragione, perché ne rivelerebbe l’inconsistenza e l’inganno e, per questo, soffocata ad ogni sussulto di coscienza.
Emblematica l’epigrafe sulla recinzione “Nihil ab intus, illusio ab extra, somnus intus, logos ab extra” (il nulla dall’interno, l’illusione dall’esterno, il sonno all’interno, la ragione all’esterno). Dall’interno, guardando oltre il recinto, si vede il nulla… perché accecati e narcotizzati dal sistema (nihil ab intus). Dall’esterno, guardando verso l’interno, si ravvisa l’illusione… che soggioga gli uomini che vivono dentro il recinto (illusio ab extra). All’interno, regna il sonno… il sonno della ragione (somnus intus). All’esterno, invece, prevale, per coloro che sono riusciti a porsi al di fuori del recinto, il logos… il pensiero… l’intelletto… la ragione (logos ab extra).
Il recinto non esiste da sempre ma è nato molto tempo fa. Ideato dal sistema e realizzato dagli uomini stessi nel corso dei secoli, esso si tramanda di generazione in generazione, consolidandosi ed evolvendosi ulteriormente, per meglio contenere e, soprattutto, nascondere l’inganno della prigione. Nessuno si chiede perché c’è; tutti danno per scontata la sua presenza, assumendola come normale e necessaria, addirittura bella. Il suo compito è quello di evitare le fughe, costringendo gli uomini a vivere nell'epigeo e a cedere alle lusinghe degli elementi di perdizione.
Il portico degli dèi vacui contiene quelle attrazioni di cui il sistema si serve per sedurre gli individui, per distrarli e tenerli il più possibile lontani dallo spazio aperto della piazza, dove coesistono quegli elementi destabilizzanti che potrebbero risvegliare lo spirito di libertà che alberga in ogni uomo, quali, l’amore, la conoscenza e la consapevolezza di sé, interpretati, rispettivamente, dall’albero invertito, dal mondo oltre il recinto e dalla scala del tempio.
Tra gli ambienti del portico gli uomini trascorrono il tempo, meglio, lasciano che esso scorra. Si incontrano, parlano, vivacchiano, invecchiano, muoiono. Realmente essi non vivono ma sono vissuti; dilapidano la loro preziosa vita, rendendola scialba e insipida, dimorando come ombre di anime in disfacimento. Si illudono di condurre una esistenza propria e libera e non si accorgono di essere gli interpreti inconsapevoli di un copione già scritto per loro dal deus ex machina, cioè il sistema, che annichila la loro esistenza, coprendola con la cenere delle illusioni.
I vermi che fanno la seta si trasformano in magnifiche farfalle. Le api nascono vermi e poi si fanno creature volanti. Gli uomini, invece, vengono partoriti con le ali e si riducono a larve striscianti. Il sistema, dannato sistema!
Sotto al portico, come scorci nascosti, sono riportati cinque ambienti dall'aspetto mesto e malinconico. Essi rappresentano gli elementi di perdizione, cioè gli eterni strumenti di condizionamento di cui il sistema si serve per attirare, ingannare e narcotizzare le coscienze degli uomini. Sono questi i vizi, il potere, il sesso, l’appariscenza e la religione.
Ed ecco allora evidenziarsi
- la Taverna di Bacco, luogo di perdizione in cui gli individui si illudono di "gustare" la vita annegandola nell'alcool e nella dissolutezza.
- il Palazzo ducale di Kratòs[1], santuario del potere, covo di ambiziosi e corrotti, spregiudicati e senza scrupoli che, come avvoltoi, si avventano sui più deboli per saziare la propria sete di dominio;
- il Nido di Venere, alcova di fugaci passioni e mercimonio di carne, dove per noia, professione, vocazione o passione si svendono corpi e illusori affetti;
- l’Emporio di Ermes, ricettacolo di miseri benestanti e sgraziate bellezze, cittadini di un'umanità che ostenta solo ricchezza esteriore, che vanta solo apparenze, dove ha valore solo ciò che luccica e si fa notare, dove l'apparire ha spodestato l'essere;
- e infine, il Santuario del portico, propizio rifugio di anime vuote che, negate alla ragione, si costruiscono un dio a propria immagine e somiglianza e in esso vi proiettano le qualità che vorrebbero ma che non possiedono. Con la promessa di un premio o la minaccia di un castigo, la religione rappresenta l’arma più potente ed efficace di cui il sistema si serve per sottomettere e controllare gli uomini. Facendo leva sul registro della suggestione e sull’umana paura della morte, rende gli individui schiavi e, al tempo stesso, complici di questa schiavitù, che viene non solo accettata ma addirittura assunta a valore.
[1] Kratos o Cratos (in greco Κρατος, "potenza") è un personaggio della mitologia greca, famoso per aver combattuto a fianco di Zeus nella lotta contro i Titani. Il suo significato simbolico è quello della potenza… del potere.
Nella parte retrostante la Scala del Tempio si trova Lo Stagno della Fonte, una sorta di acquitrino dove si raccolgono le acque provenienti dall'ipogeo. In questa scheggia di lago, dopo l'impetuoso e forzato cammino, le acque della vita arrestano la loro corsa. Avevano sognato l’azzurro del mare, le grandi onde e le creste spumose e invece si ritrovano in un bacino di palude, stanche e immobili, stese su un fondo melmoso e maleodorante, costrette a imputridire. A farle compagnia non ci sono bianchi gabbiani, affilate chiglie e vele spiegate dal vento ma ripugnanti creature e vegetazioni avvizzite che ne ricoprono la superficie, sì che finanche il cielo le neghi il riflesso della sua immagine.
Eredi di un triste e indesiderato fato, le acque dello stagno prefigurano la sorte dell’umana gente. Col loro grido muto preannunciano l’ineluttabile destino che incombe sui dimoranti del portico, decretandone l'inevitabile epilogo nel viscido fango delle paludi dell’esistenza.
Nel mezzo dell’epigeo sorge una pianta molto particolare, l’albero invertito, un singolare quanto importante protagonista, come attestano le sue dimensioni e la collocazione di rilievo al centro della piazza. Figlio di Psyche, la natura psichica e l’anima dell’umanità, l’albero simboleggia l’amore, quello universale.
È composto da un tiglio abbracciato ad una quercia, che, insieme, fusi in un unico tronco, richiamano l’antica leggenda greca di Filemone e Bauci[1].
La storia narra di due anziani coniugi che abitavano in un piccolo villaggio della Frigia (antica regione della Grecia). Un giorno, i due consorti offrirono ospitalità a Zeus ed Ermes, che viaggiavano in incognito in quelle zone, trovando solo corruzione e inospitalità. A mille case bussarono in cerca di un luogo per riposare; mille case sprangarono la porta. Una sola, infine, li accolse: piccola, piccola, con un tetto fatto di paglia e canne palustri. Lì, uniti sin dalla loro giovinezza, vivevano Bauci, una pia donna, e Filemone, suo marito, che in quella capanna erano invecchiati, alleviando la povertà con l'animo sereno di chi non si vergogna di sopportarla. I due vecchietti si adoprarono di preparare per i loro ospiti quanto possedevano, privandosi anche della loro unica oca e del pochissimo vino che avevano. Dopo aver consumato il pasto, i due visitatori si fecero riconoscere e condussero con loro i due coniugi su una montagna, invitandoli a guardarsi intorno. Filemone e Bauci videro allora tutta la regione sommersa dal diluvio, che aveva risparmiato solo la loro capanna, la quale fu mutata in un bel tempio. Gustata la meraviglia dei vecchi, Zeus chiese loro di formulare un desiderio che sarebbe stato appagato subito. I due, però, non chiesero cose eccezionali; chiesero soltanto di poter continuare a vivere insieme, l’uno accanto all’altro, come custodi del tempio e di arrivare insieme all’ultima ora … «Chiediamo d'essere sacerdoti e di custodire il vostro tempio; e poiché in dolce armonia abbiamo trascorso i nostri anni, vorremmo andarcene nello stesso istante. Ch'io mai veda la tomba di mia moglie e mai lei debba seppellirmi».
Il desiderio fu esaudito: finché ebbero vita, custodirono il tempio. Ma un giorno mentre, sfiniti dallo scorrere degli anni, stavano davanti alla sacra gradinata narrando la storia del luogo, furono progressivamente ricoperti di fronde e, quando ancora la cima di esse raggiunse il loro volto, fra loro, finché poterono, continuarono a parlare: «Addio, amore mio», dissero insieme e insieme la corteccia come un velo suggellò la loro bocca. Filemone si trasformò in una robusta quercia e Bauci in un dolcissimo tiglio, uniti insieme in uno stesso tronco, come un’unica pianta, che i fedeli al dio adorarono per anni con estrema reverenza.
Due particolari caratterizzano l’albero: l’assenza di elementi vitali (foglie, fiori, frutti) e la presenza delle radici invece dei rami (da cui l’appellativo invertito).
Infatti, nonostante la prossimità allo stagno, l’albero si sta rinsecchendo perché il terreno su cui poggia (l’epigeo) è diventato duro e impenetrabile, tanto da impedire alle radici di raggiungere l’acqua per trarne nutrimento.
Nel suo insieme, l’albero incarna la condizione di quegli individui che vivono con inquietudine la triste realtà esistenziale generata dal sistema. Non vogliono soccombere all’ineluttabile destino che li costringe alla cieca rassegnazione e anelano, attraverso l’amore, al riscatto per affermare il proprio diritto all’esistenza.
Lo fanno con un’operazione innaturale: allargando il proprio Io[2], estendendolo fino ad includere progressivamente quello degli altri, in un processo di fusione e metamorfosi. La linfa vitale dell’uno si mescola con quella dell’altro, così da fondere i propri valori, le proprie virtù e risorse con quelli dell’altro, rinvigorendo la struttura e facendo germogliare una nuova e gioiosa energia esistenziale.
A sua volta, l’esplosione della nuova forza vitale acquisita con la fusione permette all’albero di mutare i suoi rami in radici, di spingerle verso l’alto e dischiudere queste sue nuove mani, assetate di cielo, verso l’ipogeo, nel disperato tentativo di attingere, da questo, linfa vitale.
L’orizzonte della vita viene così traslato verso l’alto e l’albero (e quindi l’amore) diventa il punto d’incontro tra epigeo ed ipogeo, un ponte tra il cielo e la terra, con una estremità ben ancorata alla terra e l’altra che sfiora il cielo senza, però, mai toccarlo.
[1] La leggenda di Filemone e Bauci è narrata da Ovidio nell’VIII libro delle Metamorfosi.
[2] L’Io è il gestore centrale di tutte le attività psichiche. Esso acquisisce sia le informazioni dal mondo esterno (attraverso gli organi sensoriali) che quelle dal mondo interno (istinti, emozioni, ecc.). Poi, le elabora e genera una risposta (un’azione, un pensiero, un comportamento).
L’Io è anche il centro della personalità, cioè di quell’insieme di caratteristiche psichiche e comportamentali che caratterizzano l’individuo. La personalità rappresenta la maschera sociale con la quale l’individuo (e quindi l’Io) si propone agli altri per essere accettato, riconosciuto e, soprattutto, apprezzato. Non a caso, “personalità” deriva da πρόσωπον (prosopon), termine greco col quale si indicava la maschera usata nelle tragedie.
L’Io, infine, è la struttura che percepisce sé stessa (autocoscienza) e che entra in relazione con le altre persone, distinguendole e considerandole come "non-Io". Ai confini del proprio l’Io, infatti, c’è (costituzionalmente) una impenetrabile barriera che lo separa dal mondo esterno e, dunque, anche dagli altri Io. L’integrità di questa barriera è fondamentale per il corretto funzionamento della psiche. Una perforazione o frantumazione di essa si traduce in un vero disastro per la mente. Nella schizofrenia, la rottura della barriera dell’Io rappresenta uno degli elementi caratterizzanti la malattia e ha delle conseguenze catastrofiche sia sul piano clinico che su quello umano.
Alla luce di queste acquisizioni, ipotizzare una unificazione degli Io, quale si pretende nell’unione coniugale e in molte altre forme di sodalizio umano, è ovviamente impossibile. Il tentativo di unificazione si scontra inesorabilmente con i limiti strutturali delle parti in causa. Le barriere individuali che li circondano gli Io e che per loro intrinseca natura non si possono infrangere, non ne consentono in alcun modo la comunione dei contenuti. A riprova di ciò, ci sono gli infiniti fallimenti che da sempre si perpetuano nella storia dell’umanità… nonostante i pressanti e reiterati condizionamenti religiosi, sociali e culturali.
Una possibile via di fuga e di superamento dell’empasse esiste, però, ed è l’allargamento dell’Io. Questo consiste nello spostamento radiale e progressivo del fronte della barriera, con conseguente ampliamento del territorio dell’Io. In tal modo è possibile includere all’interno dei propri confini anche altri Io, superando così il vincolo strutturale della barriera. Un processo simile, si verifica molto spesso nella realtà quotidiana ed è rappresentato dall’amore genitoriale. Il fenomeno dell’ampliamento dell’Io, in questo caso, avviene in maniera inconsapevole e l’Io soggettivo riesce ad includere nel proprio territorio l’Io del proprio figlio (o, addirittura, di più figli), semplicemente perché lo sente come proprio, cioè rientrante nel proprio contesto territoriale. In pratica, si verifica un “naturale” allargamento dell’Io, l’espansione del quale porta ad includere all’interno di se l’Io del figlio (o dei figli).
A ridosso dell’albero e lontano dagli elementi di perdizione, si innalza, celata e silenziosa, la scala del tempio. Come una corda tesa tra i due mondi, la scala prospiciente la piazza, inarcandosi su di essa, offre una via di fuga, l’unica, per quei rari e speciali individui che, pur appartenendo al mondo dell’epigeo, non ne accettano passivamente gli schemi imposti dal sistema e si interrogano sul senso della vita e sul perché delle cose. Non danno nulla per scontato e guardano il mondo con occhi diversi, gli occhi della ragione.
Scrutano l’orizzonte oltre la recinzione e intravedono un altro mondo dietro le sbarre, un mondo reale, a loro precluso. E allora la recinzione si trasforma in una gabbia e l’aria dell’epigeo diventa insufficiente e soffocante. Il desiderio di conoscere e l’anelito di libertà li spingono a evadere e a ricercare il sentiero che conduce alla verità e alla salvezza.
Un solo percorso è però possibile ed è quello offerto dalla scala, sulla cui sommità, si legge il monito «Sapere aude», cioè, abbi il coraggio di sapere… abbi il coraggio di conoscere, di servirti del tuo intelletto, abbandonando ogni pregiudizio, dogma, verità e certezze preconfezionate, distorsioni e menzogne abilmente instillati nella tua mente dal sistema e nei quali il tuo cuore annega e la tua “inesistenza” ne trabocca.
Ma il cammino da intraprendere sulla scala è tutto in salita, con destinazione ignota, reso ancora più incerto dall’assenza di una ringhiera di protezione e dalla presenza di scalini che, man mano si sale, diventano sempre più accidentati e insicuri.
Questo induce alcuni a rinunciare all’impresa e a tornare indietro; altri, invece, salendo con titubanza e passo incerto, inciampano e cadono rovinosamente giù.
Altri individui, invece, i più tenaci e determinati, quasi mai soli, riescono a salire tutta la scala e, durante l’ascesa, elevandosi e svincolandosi dal sistema, vedono il mondo dell’epigeo con una chiarezza e una luce mai viste prima.
Dall’alto le vicende umane si percepiscono con incredibile nitidezza e molte delle cose per le quali gli uomini si affannano, si riducono al loro vero e infimo valore. Persino gli elementi di perdizione scompaiono alla vista.
Raggiunta la sommità della scala, si apre, come per incanto, un suggestivo ed affascinante scenario, l’ipogeo, collegato ad essa da un piccolo e insicuro ponte in prossimità del quale è presente una profonda voragine, denominata, il precipizio del diavolo.
Per raggiungere l’ipogeo bisogna attraversare il ponte; ma, le dimensioni della voragine sono tali da costituire un grande pericolo. Pertanto, si rende necessario un lungo, coraggioso salto, il salto della ragione, col quale spiccare il volo verso il profondo infinito… per misurarsi con l’ignoto.
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