Gli studi condotti e le relative pubblicazioni hanno richiesto anni di impegno intenso, spesso estremamente gravoso, nonché il sacrificio personale dovuto ai lunghi periodi trascorsi lontano dalla famiglia. Tali lavori sono stati inoltre realizzati in un contesto privo di qualsiasi ritorno economico, mossi unicamente dalla passione per la scienza e la ricerca.
Di seguito vengono riportati i risultati più significativi di queste ricerche, con particolare attenzione all’impatto che hanno avuto sul progresso scientifico e sulla pratica clinica.
Prima della pubblicazione del mio articolo su Gastroenterology (1992), la dispepsia idiopatica cronica era considerata una condizione prevalentemente legata a disturbi della motilità del tratto digestivo prossimale e veniva trattata con farmaci procinetici (che stimolano l'attività motoria dello stomaco), ottenendo però scarsi benefici.
I nostri studi hanno dimostrato che una gran parte dei pazienti con dispepsia idiopatica cronica presentava invece una gastrite da Helicobacter pylori (batterio fino ad allora sconosciuto), mentre solo una minoranza aveva effettivamente un disturbo funzionale della motilità ("dismotility-like dyspepsia"). Un'attenta analisi dei sintomi lamentati dai pazienti ha permesso inoltre di identificare due distinti profili sintomatologici: un gruppo caratterizzato principalmente da dolore o bruciore gastrico, associato soprattutto alla gastrite da Helicobacter pylori, e un altro gruppo che lamentava principalmente pesantezza dopo i pasti e cattiva digestione, correlato principalmente a disturbi motori del tratto digestivo superiore.
Queste scoperte hanno rappresentato una svolta rivoluzionaria, modificando radicalmente la storia clinica della malattia. La dispepsia idiopatica cronica non veniva più vista come una patologia persistente e cronico-ricorrente, bensì come una condizione guaribile in modo definitivo, consentendo così la risoluzione completa dei fastidiosi sintomi lamentati dai pazienti.
Lo studio pubblicato su Gastroenterology, la più prestigiosa rivista di gastroenterologia, è stato citato in oltre 230 articoli scientifici successivi da altri ricercatori.
Agli inizi degli anni ’90, era difficile eradicare l’Helicobacter pylori e non c’erano linee guida in merito. Uno dei protocolli più efficaci (tasso di eradicazione del 90%) era quello proposto da Thomas Borody (Australia), che prevedeva la somministrazione contemporanea di tre farmaci (Amoxicillina, Tetracicline e Bismuto colloidale), alla dose di 3 compresse al giorno (per un totale di nove compresse/die), il tutto per 40 giorni. Altri protocolli più brevi, non funzionavano altrettanto bene (efficacia inferiore al 60% circa).
Nello stesso periodo, veniva introdotto, in ambito urologico, un nuovo trattamento per l’infezione delle basse vie urinarie, basato sulla somministrazione di una cospicua dose di Fosfomicina (Monuril). Il razionale era quello di curare l’infezione delle basse vie urinarie con un’unica somministrazione di alte dosi di antibiotico, sfruttando la sua azione diretta sui microbi (vis a fronte), senza ricorrere (come si faceva prima) alla vis a tergo (effetto da dietro, dal sangue). Questo perché l'infezione delle basse vie urinarie era, almeno nelle fasi iniziali, una infezione superficiale.
Da qui l’idea di applicare anche all'Helicobacter il principio dell’eradicazione mediante vis a fronte. L'intuizione scaturiva dalla constatazione che l'Helicobacter non invadeva la parete dello stomaco, ma se ne stava al di fuori, sotto lo strato di muco. Fu così che studiando la farmacocinetica di alcuni antimicrobici, la loro diffusione nel muco gastrico e la loro stabilità nel succo acido dello stomaco, arrivai alla formulazione di una proposta terapeutica davvero innovativa, la one day therapy. Fu un successo. L’intuizione si dimostrò corretta: nel caso dell’Helicobacter, la vis a fronte funzionava meglio della vis a tergo. Oltre il 70% dei pazienti guariva con un solo giorno di terapia. Successivamente, perfezionai il protocollo e, allungando di un solo giorno il trattamento, si poteva ottenere una percentuale di eradicazione che raggiungeva l’84%. Erano nate le short therapies. Da allora le terapie per l’Helicobacter sono andate progressivamente accorciandosi, fino agli attuali protocolli di 7-10 giorni, con percentuali di eradicazione superiori al 90-95%. La felice intuizione mi ha fruttato una comunicazione orale al congresso modiale di Gastroenterologia e una serie di pubblicazioni su riviste scientifiche autorevoli.
Lo studio sulle gastriti atrofiche mi ha permesso di raggiungere le vette della editoria scientifica. Un primo lavoro sulle gastriti atrofiche è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista di Medicina The New England Journal of Medicine (1997). Un secondo lavoro, sull’American Journal of Gastroenterology (1998).
Fino a prima di queste pubblicazioni, la gastrite atrofica della mucosa ossintica veniva considerata una malattia cronica, progressiva e irreversibile, nonché una condizione di rischio per il tumore allo stomaco. Con lo studio pubblicato si dimostrava che le forme di gastrite atrofica associate a colonizzazione da Helicobacter, una volta eradicato il batterio, potevano guarire. L’atrofia delle ghiandole scompariva e lo stomaco tornava a produrre acido e a svuotare efficacemente. Di conseguenza, il rischio di sviluppare tumore allo stomaco si riduceva fino ad annullarsi.
L’eleganza del disegno sperimentale dello studio e la rilevanza dei risultati furono tali da indurre l’Editor dell’American Journal of Gastroenterology a dedicare l’editoriale della rivista al lavoro pubblicato.
In alcuni pazienti affetti da colonizzazione gastrica da Helicobacter pylori, la terapia eradicante non riesce a sconfiggere l’infezione. In questi pazienti, più si fanno terapie, più aumenta il rischio di resistenze farmacologiche indotte e meno probabilità restano per guarire. Nella mia esperienza personale, mi sono imbattuto in un paziente che era stato sottoposto (prima che lo incontrassi) a ben undici trattamenti per l’Helicobacter.
Poiché mi ero occupato ripetutamente di schemi terapeutici eradicanti, di sensibilità e resistenza farmacologica del batterio, di fisiopatologia del succo gastrico, misi a punto un protocollo terapeutico specifico per ceppi multiresistenti. Il trattamento si dimostrò essere altamente efficace: era in grado di eradicare l’infezione nel 100% dei casi di pazienti ineradicabili.
Lo studio fu pubblicato sull’American Journal of Gastroenterology (1999).
Uno dei problemi principali che ha sempre afflitto, e continua tuttora a interessare gli endoscopisti, è rappresentato dalla diagnosi tempestiva della gastrite atrofica e dell'infezione da Helicobacter pylori. Durante la gastroscopia, infatti, se non vengono effettuate biopsie mirate della mucosa gastrica (multiple in caso di sospetta gastrite atrofica), entrambe queste condizioni possono passare inosservate, nonostante l’invasività dell’esame endoscopico stesso. Ciò rappresenta un'importante criticità, considerando che queste due condizioni costituiscono fattori di rischio per lo sviluppo di neoplasie gastriche.
Tuttavia, dal punto di vista operativo, eseguire un esame endoscopico senza biopsie è certamente più agevole rispetto a uno con biopsie multiple. Pertanto, spesso gli operatori tendono a evitarle, ancor più nelle strutture private dove può essere assente un servizio interno di anatomia patologica, necessario per l'analisi microscopica dei campioni prelevati.
Per rispondere a questa esigenza clinica, nel 1998 ho ideato una possibile soluzione, concretizzata poi dopo diversi anni di studi interdisciplinari che hanno coinvolto competenze mediche, chimiche, elettroniche e informatiche.
L'idea consisteva nell’utilizzare il succo gastrico, normalmente aspirato e scartato prima dell’esame endoscopico, per identificare automaticamente e in tempo reale la presenza dell’Helicobacter pylori e della gastrite atrofica. In questo modo, l’endoscopista sarebbe stato informato immediatamente durante l’esame stesso e avrebbe potuto decidere prontamente se procedere o meno con le biopsie necessarie, riducendo significativamente il rischio di omissioni diagnostiche.
La realizzazione di questa soluzione ha richiesto un lungo percorso fatto di sperimentazioni preliminari in vitro, costruzione di prototipi manuali e successivamente automatici, sviluppo di un sistema integrato di comunicazione vocale con l'operatore e infine una rigorosa validazione clinica. Dopo numerosi ostacoli e sfide tecniche, il dispositivo, denominato Mt 21-42 in riferimento al versetto biblico (Matteo 21-42: "la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo"), è risultato efficace e affidabile per la diagnosi immediata delle due condizioni.
Il dispositivo che ho ideato e sviluppato ha dato origine a numerose pubblicazioni scientifiche e alla fondazione di un'azienda biomedicale, la Niso Biomed, che lo produce e distribuisce a livello internazionale.
L’infestazione da enterobius vermicuilaris è una delle più diffuse infestazioni parassitarie nel mondo. Essa è responsabile non solo del fastidioso prurito anale dei bambini, ma anche di patologie importanti riguardanti l’apparato digerente e altri distretti. Nonostante siano disponibili farmaci efficaci per combattere il parassita, la cura di molti casi di infestazione non avviene perché è difficile diagnosticare la presenza del verme. Gli unici due test disponibili per la diagnosi sono lo scotch test e l’esame parassitologico delle feci, che però, mediamente non superano il 20% di sensibilità diagnostica. Questo vuol dire che l’80% dei pazienti sta male e non può essere curato perché non si riesce a individuare il responsabile (cioé, il parassita).
Alla luce di questa problematica e per avvicinare gli allievi dell’Agorà della prima generazione al mondo della ricerca, avviai uno studio per mettere a punto una nuova metodica, basata sulla biologia molecolare, che permettesse di rilevare il verme in un’alta percentuale di casi. La storia della sperimentazione è stata lunga, ma anche affascinante perché ha visto coinvolti ragazzi ancora liceali in una impresa impensabile. Alla fine, si è riusciti a raggiungere l’obiettivo. Per la prima volta, è stata messa a punto una metodica di biologia molecolare (una PCR) che permette di individuare il parassita in una elevata percentuale di casi (89%) e con un’alta specificità (100%).
Lo studio è stato pubblicato su Frontiers in Microbiology (2022).