Gli studi intrapresi e le pubblicazioni nate da essi sono il frutto di anni di dedizione profonda, spesso segnati da sacrifici personali e lunghi periodi di lontananza dagli affetti più cari.
Ho scelto consapevolmente di non seguire né la carriera universitaria né quella ospedaliera, entrambe non solo economicamente più vantaggiose, ma anche professionalmente più prestigiose e socialmente riconosciute come vette di successo e orgoglio nel mondo medico.
Questa decisione, dettata dal desiderio di preservare uno spirito libero e indipendente che sento dentro di me come irrefrenabile, ha orientato ogni passo del mio percorso.
Guidato unicamente dalla passione autentica per la scienza e la ricerca, ho portato avanti il mio lavoro con impegno e coerenza.
Di seguito, presento i risultati più significativi di questo cammino, con particolare attenzione all’impatto che hanno avuto sul progresso scientifico e sulla pratica clinica.
Prima della pubblicazione del mio articolo su Gastroenterology (1992), la dispepsia idiopatica cronica era considerata una condizione prevalentemente legata a disturbi della motilità del tratto digestivo prossimale e veniva trattata con farmaci procinetici (che stimolano l'attività motoria dello stomaco), ottenendo però scarsi benefici.
Lo studio condotto ha rivoluzionato questa visione dimostrando che la maggioranza dei pazienti affetti da dispepsia idiopatica cronica presentava, in realtà, una gastrite provocata dall’Helicobacter pylori, un batterio allora ancora poco conosciuto. Solo una minoranza soffriva di un vero disturbo funzionale della motilità, definito come “dismotility-like dyspepsia”. Un’analisi accurata dei sintomi ha inoltre permesso di distinguere due profili clinici distinti: un gruppo caratterizzato da dolore o bruciore gastrico, associato prevalentemente alla gastrite da H. pylori, e un altro gruppo in cui predominavano sensazioni di pesantezza post-prandiale e cattiva digestione, correlate principalmente a disfunzioni motorie del tratto digestivo superiore.
Queste scoperte segnarono una svolta epocale nella comprensione della malattia, cambiandone radicalmente la prospettiva clinica. La dispepsia idiopatica cronica cessò di essere vista come una condizione persistente e cronico-ricorrente, aprendo la strada a trattamenti efficaci e alla possibilità di una guarigione definitiva, con la completa scomparsa dei sintomi che tanto affliggevano i pazienti.
Lo studio pubblicato su Gastroenterology, la rivista più autorevole nel campo della gastroenterologia, è stato citato in oltre 230 articoli scientifici, testimonianza dell’impatto duraturo e della risonanza internazionale di questa importante scoperta.
All’inizio degli anni ’90, eradicare l’Helicobacter pylori rappresentava una sfida complessa, in assenza di linee guida consolidate. Uno dei protocolli più efficaci, proposto da Thomas Borody in Australia, prevedeva la somministrazione contemporanea di tre farmaci — Amoxicillina, Tetracicline e Bismuto colloidale — per un totale di nove compresse al giorno, per ben 40 giorni, raggiungendo un tasso di eradicazione attorno al 90%.
Altri protocolli, più brevi, si dimostravano invece meno efficaci, con percentuali di successo inferiori al 60%.
Nello stesso periodo, in ambito urologico, si stava sperimentando un approccio innovativo per le infezioni delle basse vie urinarie: una singola, elevata dose di Fosfomicina (Monuril) capace di debellare l’infezione con un’unica somministrazione. Questo metodo sfruttava il principio della vis a fronte — un’azione diretta e localizzata sull’infezione — anziché la tradizionale vis a tergo, cioè l’azione sistemica dal sangue. L’infezione delle basse vie urinarie, nelle fasi iniziali, era infatti superficiale, e questo approccio risultava più efficace.
Da questa osservazione nacque l’intuizione di applicare lo stesso principio all’Helicobacter pylori. Considerando che il batterio non invade la parete dello stomaco, ma si annida sotto lo strato di muco, studiando la farmacocinetica degli antimicrobici e la loro capacità di diffondersi e rimanere stabili nel succo gastrico acido, formulai una proposta terapeutica rivoluzionaria: la one day therapy.
L’intuizione si rivelò corretta: l’azione diretta — la vis a fronte — funzionava meglio nel debellare l’Helicobacter. Oltre il 70% dei pazienti guarì con un solo giorno di trattamento. Successivamente, perfezionando il protocollo e prolungandolo di un solo giorno, si raggiunse un tasso di eradicazione dell’84%, dando così origine alle short therapies.
Da allora, le terapie per l’Helicobacter pylori si sono progressivamente accorciate, arrivando agli attuali protocolli di 7-10 giorni, con percentuali di successo superiori al 90-95%.
Questa felice intuizione mi ha aperto le porte per una comunicazione orale al congresso mondiale di Gastroenterologia e ha dato origine a una serie di pubblicazioni su riviste scientifiche autorevoli, lasciando un segno duraturo nella cura di questa infezione.
Non è vero che la gastrite atrofica sia sempre una condizione irreversibile; essa può infatti guarire, cancellando così il rischio di trasformazione tumorale.
Lo studio che ho condotto sulle gastriti atrofiche rappresenta una delle vette del mio percorso nella letteratura scientifica. Un primo lavoro fu pubblicato sulla rinomata rivista The New England Journal of Medicine nel 1997, seguito da un secondo studio sull’American Journal of Gastroenterology nel 1998.
Fino a quelle pubblicazioni, la gastrite atrofica della mucosa ossintica veniva universalmente considerata una malattia cronica, progressiva e irreversibile, nonché una condizione ad alto rischio per lo sviluppo del tumore allo stomaco.
Il mio studio dimostrò invece che, nelle forme di gastrite atrofica associate alla colonizzazione da Helicobacter pylori, l’eradicazione del batterio portava alla guarigione. L’atrofia delle ghiandole gastriche regrediva, lo stomaco riprendeva la produzione acida e il normale svuotamento gastrico, e con essi il rischio di cancro si riduceva fino a scomparire completamente.
L’eleganza del disegno sperimentale e la portata rivoluzionaria dei risultati furono tali da indurre l’Editor dell’American Journal of Gastroenterology a dedicare un editoriale della rivista a questo lavoro, riconoscendone l’importanza e l’impatto per la pratica clinica e la ricerca.
In alcuni pazienti affetti da colonizzazione gastrica da Helicobacter pylori, la terapia eradicante tradizionale si rivela inefficace, lasciando l’infezione persistente e resistente ai trattamenti. In questi casi, ogni nuova terapia aumenta il rischio di insorgenza di ceppi multiresistenti, riducendo drasticamente le possibilità di guarigione.
Nella mia esperienza clinica, mi sono trovato di fronte a un paziente che, prima di incontrarmi, aveva già subito undici tentativi falliti di eradicazione.
Grazie a un approfondito studio degli schemi terapeutici, della sensibilità e delle resistenze farmacologiche del batterio, nonché della fisiopatologia del succo gastrico, misi a punto un protocollo specifico per ceppi multiresistenti. Questo trattamento si dimostrò straordinariamente efficace, riuscendo a eradicare l’infezione nel 100% dei casi di pazienti definiti fino ad allora “ineradicabili”.
I risultati di questo importante studio furono pubblicati sull’American Journal of Gastroenterology nel 1999, segnando un traguardo fondamentale nella lotta contro le infezioni da H. pylori resistenti.
Uno dei principali problemi che da sempre affliggono gli endoscopisti è la diagnosi tempestiva della gastrite atrofica e dell’infezione da Helicobacter pylori. Durante la gastroscopia, senza l’esecuzione di biopsie mirate — multiple nei casi sospetti di gastrite atrofica — queste condizioni possono facilmente sfuggire, nonostante l’invasività dell’esame stesso. Questo rappresenta una criticità rilevante, dato che entrambe costituiscono fattori di rischio fondamentali per lo sviluppo di neoplasie gastriche.
Dal punto di vista operativo, un esame endoscopico senza biopsie risulta certamente più rapido e meno complesso. Di conseguenza, molti operatori, soprattutto nelle strutture private prive di un servizio interno di anatomia patologica per l’analisi istologica, tendono spesso a evitarle.
Per rispondere a questa esigenza clinica, nel 1998 concepii una soluzione innovativa, frutto di anni di studi interdisciplinari che coinvolsero competenze mediche, chimiche, elettroniche e informatiche.
L’idea era semplice ma rivoluzionaria: utilizzare il succo gastrico, normalmente aspirato e scartato prima dell’endoscopia, come materiale diagnostico per identificare in modo automatico e in tempo reale la presenza di Helicobacter pylori e della gastrite atrofica.
In tal modo, l’endoscopista avrebbe ricevuto informazioni immediate durante l’esame, potendo così decidere con prontezza se procedere alle biopsie necessarie, riducendo sensibilmente il rischio di omissioni diagnostiche.
La realizzazione di questa visione richiese un lungo percorso, fatto di sperimentazioni in vitro, costruzione di prototipi manuali e successivamente automatici, sviluppo di un sistema di comunicazione vocale integrato con l’operatore e rigorose validazioni cliniche.
Dopo numerose sfide tecniche, il dispositivo — battezzato Mt 21-42 in riferimento al versetto biblico Matteo 21,42 (“la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo”) — si rivelò efficace e affidabile nella diagnosi immediata delle condizioni target.
Questa innovazione ha generato numerose pubblicazioni scientifiche e ha portato alla fondazione di Niso Biomed, un’azienda biomedicale che oggi produce e distribuisce il dispositivo a livello internazionale, contribuendo a trasformare la pratica clinica nell’endoscopia gastrica.
L’infestazione da Enterobius vermicularis è tra le parassitosi più diffuse al mondo, responsabile non solo del fastidioso prurito anale nei bambini, ma anche di patologie che interessano l’apparato digerente e altri distretti.
Nonostante l’esistenza di farmaci efficaci per combattere il parassita, molti casi rimangono non trattati a causa della difficoltà di diagnosticare con precisione la sua presenza.
I due test diagnostici tradizionali, lo scotch test e l’esame parassitologico delle feci, presentano una sensibilità diagnostica spesso inferiore al 20%, lasciando così l’80% dei pazienti senza una diagnosi certa e, di conseguenza, senza un trattamento adeguato.
Consapevole di questa sfida e desideroso di avvicinare i primi allievi dell’Agorà al mondo della ricerca, intrapresi uno studio per sviluppare una nuova metodica basata sulla biologia molecolare. L’obiettivo era ambizioso: creare un test capace di rilevare il verme in una percentuale significativamente più alta di casi.
La sperimentazione fu lunga e complessa, ma anche straordinariamente affascinante, grazie al coinvolgimento di giovani studenti liceali in una sfida scientifica impensabile.
Alla fine, il successo arrivò: fu messa a punto per la prima volta una metodica di biologia molecolare — una PCR — che consente di individuare il parassita con un’impressionante sensibilità dell’89% e una specificità del 100%.
Questo importante risultato, che apre nuove prospettive nella diagnosi e nel trattamento dell’infestazione da ossiuri, è stato pubblicato su Frontiers in Microbiology nel 2022.