Questa sezione contiene riflessioni su temi a caratere psicologico/filosofico tratti da messaggi da me inviati ad amici o pubblicati sulla pagina Fcebook.
03-08-2012 (dedica per il 18° compleanno di figlio Francesco)
Il vascello è pronto
e la vela è già dispiegata.
Fra poco s’alzerà il vento e la vela si gonfierà
trascinando sull’acqua la barca della tua vita.
Il varo di una imbarcazione avviene solitamente nel porto,
per scivolamento di poppa.
Spesso la barca non riesce ad abbandonare il porto
perché la vela è troppo piccola
o perché l’acqua è bassa
o perché il vento è flebile
o forte e avverso.
Talvolta, invece, l’imbarcazione riesce a conquistare il largo
ma, per timore dell’incerto o per problemi strutturali,
si limita a navigare a poche miglia dalla costa
affogando i sogni in mezza gamba d’acqua.
La tua barca è però particolare
perché è stata costruita a bordo di un’altra,
nel corso di una coraggiosa ed incerta
navigazione di questa sulla rotta d’oriente.
Sulle onde dell’oceano è stata concepita
e per resistere ad esse è stata progettata.
Molta cura e tanto amore sono stati riposti nell’assemblaggio
affinché lo scafo risultasse forte, solido e compatto.
Leggera come il vento, robusta come la roccia,
forte ed essenziale, non ha zavorra né orpelli.
Il suo punto di forza è la vela,
imponente e maestosa,
leggera e resistente,
splendente come il sole.
Essa rappresenta il cuore della barca,
il motore della tua vita,
le ali dei tuoi sogni.
Con essa (vela) puoi correre velocemente,
solcare i mari più profondi,
affrontare le tempeste,
puoi persino andare contro vento.
E quando inevitabilmente attraverserai le stagnanti acque della bonaccia,
dove il mare si azzittisce e non c’è più vento né movimento,
dove le barche solitamente si fermano e la nebbia le avvolge,
dove i cadaveri di uomini e donne,
tanti e tanto belli,
tutti morti giacciono nel fondo del mare ad imputridire,
tu potrai con essa volare,
uscire dalla bonaccia e dalla nebbia,
osservare dall’alto le miserie umane,
potrai finanche staccarti dallo scafo
e volteggiare nel cielo limpido dell’universo
e navigare verso quell’Oriente
dove ogni sogno tende,
ogni speranza si rifugia
e dove lo spirito si smarrisce.
Buon viaggio figlio mio
20-04-2012 (a Aldo Ummarino)
Antonio, sei stato davvero illuminante. Mi hai dato degli strumenti davvero utili. Spero di essere un buon "chimico" dell'amore. C'è un punto che però non comprendo. Come fai a sapere che quella che incontri è davvero la donna che ami?
Provo a spiegarti con una metafora la questione. La mia risposta dovrebbe "suonarti" chiara.
La prossima volta che vieni a casa, siediti al pianoforte e con la mano sinistra suona un tasto qualunque. Poi, chiudi gli occhi e, continuando ogni tanto a suonarlo, cerca, con la mano destra, di individuare un altro tasto che, suonato assieme a quello della mano sinistra, produca un suono gradevole che ti colpisca in modo particolare.
Noterai che ci sono alcuni tasti della mano destra che, suonati assieme a quello della mano sinistra, creano un suono sgradevole, tanto da generare una sorta di fastidio (per esempio, il DO con un RE o con un SI o con un FA). Eppure, gli stessi tasti, suonati singolarmente non disturbano affatto.
Poi, ci sono altri tasti che, suonati assieme a quello della mano sinistra, producono un suono gradevole che solletica il cuore, tanto che saresti tentato di fermarti e dire di aver individuato il tasto giusto (per esempio, il DO con un SOL o con un MI). Se, però, hai pazienza e persisti nella sperimentazione, ti capiterà di centrare un abbinamento che ti farà sussultare per l’armonia generata. Quando l'avrai trovato, apri gli occhi e vedrai che il tasto della mano destra che suona divinamente in sintonia con quello della mano sinistra è la stessa nota (un DO) di quello della mano sinistra, ma appartenente ad un'ottava diversa.
L'armonia e la complementarità prodotte dai due tasti (diversi !) si traduce in un suono che il tuo cuore individua subito come "ideale", tanto da darti l’impressione che il suono dei singoli tasti sia svanito e abbia dato origine ad uno nuovo suono, diverso dai singoli suoni, ma che, al tempo stesso, li comprende entrambi. La fondamentale dei due tasti e le rispettive armoniche si sciolgono e il risultato che ne deriva è una nuova fondamentale e nuove armoniche. Spero che la metafora ti sia chiara.
…Un’ultima considerazione, assolutamente da non dimenticare. Una volta “piantato” l’Amore va coltivato, curato e assistito … proprio come un seme, un germoglio e una pianta. E come per le piante, anche per l’Amore la fase più delicata è quella della germinazione e della crescita iniziale. È in questa fase che c’è il rischio maggiore di perdita ed è proprio questa fase che necessita di maggiore attenzione e assistenza. Poi, crescendo, la pianta (e quindi l’Amore) sviluppa radici che vanno in profondità a cercarsi da sole i nutrienti. A questo punto, essendo diventata grande, la pianta ha bisogno di minore cura e … inizia a produrre i frutti. Occhio a non fraintendere, ho detto "minore cura" e non "nessuna cura". Non scodare, infatti, che anche la pianta adulta ha pur sempre bisogno di sole e di acqua per mantenersi in vita.
03-03-2013 (a Primiano Dentale)
Caro Primiano,
mi rende enormemente felice vederti porre delle domande critiche e nient’affatto banali o scontate. Parto dall’ultima delle domande che mi poni: “…cosa significa quando dici che la condivisione interiorizzata è la spia più sensibile dell'Amore?”
Vedi, Primiano, se tu riesci ad interiorizzare il tuo altro, riesci ad amarlo. Lo sforzo di interiorizzazione ti porta, per empatia, a comprendere e condividere (nel senso di sentire dentro di te) le sensazioni e i sentimenti dell’altro. Persino i suoi errori non ti sembreranno più tali, perché riuscirai a leggere il suo operato dal “suo” punto di vista. Ma quando tu fai questo, non fai altro che includere nel tuo Io il suo e a questo punto viene a mancare l’antitesi degli Ego che è la causa prima di tutti i mali … il MALE, appunto.
Aspetta, non brontolare, provo a spiegare meglio quest’ultimo concetto con un esempio. Tu, intanto, tieni a mente che uno degli istinti dominanti dell’uomo (e degli altri animali) è quello di sopraffazione (cioè, prevalere sugli altri). Questo, non scordarlo, sta scritto nei nostri geni e non ci possiamo sottrarre. Adesso, se io ti dicessi una cosa offensiva, accompagnandola con uno schiaffo, tu ti arrabbieresti. Se, invece, io ti pestassi accidentalmente un piede, procurandoti un dolore fisico maggiore di quello prodotto dallo schiaffo, tu non ti arrabbieresti.
Nel primo caso tu ti arrabbi non per il dolore fisico inferto dallo schiaffo, ma perché il tuo Io si è sentito messo in cattiva luce e umiliato dal mio Io. Nel secondo caso. Invece, tu non ti arrabbi perché il tuo Io non è stato in alcun modo scalfito, nonostante il maggiore dolore fisico procurato.
Nel primo caso scatta l’antitesi degli Ego: il tuo Io si sente sopraffatto ed umiliato dal mio Io e, per questo, si oppone e lo avversa. Nel secondo, invece, non c’è alcuna antitesi.
Ritornando alla interiorizzazione. Se il tuo Io riesce ad espandersi e a includere quello di un altro, non può esserci antitesi degli Ego (perché non c’è un “altro” Io con cui conflittualizzare) e, quindi, non può esserci offesa. Se non c’è offesa non c’è contrasto e se non c’è contrasto non c’è antipatia e se non c’è antipatia non c’è guerra.
Mi chiederai : “Ma da dove scaturisce la necessità del gene del male legato all’istinto di sopraffazione?”. Se pensi questo è perché ti sfugge un passaggio importante. La natura ha la necessità di garantire, prima di tutto, la continuità e la sopravvivenza della specie.
Se non ci fossero stati gli istinti, col cavolo che l’uomo sarebbe sopravvissuto all’implacabile (ma necessaria) forza selettiva della natura. Tu pensi davvero che l’uomo avrebbe fatto tanti figli se non ci fosse stato l’istinto sessuale? Ovvio che no! Ma in questo modo, come avrebbe potuto garantire la continuità della propria specie che veniva giornalmente decimata da malattie e aggressioni varie della natura? Allora, il meccanismo della selezione naturale cosa ha fatto? Ha selezionato e favorito la mutazione genetica che comportava per l’uomo l’irrefrenabile istinto della pulsione sessuale. Mi potresti obiettare “Ma, visto che c’era, perché non favorire anche nella donna il gene della pulsione sessuale? 😊 Non l’ha fatto perché era svantaggioso. Così facendo, infatti, la donna non sarebbe più stata una buona madre e avrebbe pensato più a xxxx che ad accudire i propri figli. Non a caso De Andrè la descrive come “femmina per un giorno e madre per sempre”. Come vedi niente è affidato al caso e non c’è affatto bisogno di scomodare il “mistero di Dio” per interpretare talune cose.
… Pertanto, l’uomo è santo quando é solo, mentre è geneticamente obbligato ad essere malvagio in collettività (come caxxo parlo bene oggi 😊!). Il grosso del lavoro sta nel comprendere questo concetto perché, se si comprende questo aspetto “naturale”, si possono affrontare tutte le problematiche ad esso correlate e superarle con relativa facilità.
...In conclusione, prima di porci il problema di amare (o insegnare ad amare) bisogna risolvere le conflittualità dell’Io coll’Es e col Super-Io. Se non si fa questo coraggioso passo, tutto il resto non ha senso. Quelle che riteniamo essere le nostre conquiste più preziose sono, in realtà, solo dei bei trofei da esibire nella luccicante vetrina del Super-Io, trofei coi quali compiacersi e piacere agli altri.
Ecco perché penso che quello che viene propinato al catechismo, ACR, incontri e corsi vari non serve a nulla. Anzi, paradossalmente, può solo peggiorare le cose. Credimi, non sto esagerando. Se ci pensi bene (e so che sei intelligente) convincere bambini, ragazzi o adulti che certe cose (i peccati) non vanno fatte ed altre (opere buone, preghiere, ecc.), invece, perseguite, non produrrà mai il risultato atteso e servirà solo ad alimentare il Super-Io e a generare frustrazioni e fragilità psicologiche.
Bisogna, caro Primiano, buttare all’aria tutti inostri precedenti investimenti di vita fatti e ricominciare da zero (e non da tre), avendo, come obiettivo principale, quello della conoscenza della nostra mente. Fatto questo, bisogna insegnarlo agli altri e poi, forse, il mondo cambierà.
Quindi, non ti sforzare di diffondere l’amore (perché non ce l’hai, almeno per ora), ma limitati a rimuovere il male (perché adesso puoi farlo). L’amore emergerà spontaneamente.
24-09-2014 (a Concettina Caputo)
Vedi, Concettina, quando avevo gli occhi appannati (mutuando una tua bella espressione)
vivevo in un mondo di proibizioni,
la trasgressione delle quali si chiamava "peccato".
Per quanto mi impegnassi a sfuggirgli,
mi ritrovavo sempre immerso fino al collo
e vedevo cose belle tingersi di nero e impregnarsi di colpe.
Per questo, la tristezza e la delusione albergavano nel mio piccolo cuore.
Da quando sono fuggito da quel mondo,
non conosco più le proibizioni e, di conseguenza,
non trasgredisco più e non sono più costretto a scappare.
Ora, avendo la possibilità di fermarmi, vedo cose bellissime e meravigliose
che, a guardarle bene, sono le stesse di prima, ma lavate dalla pioggia della libertà e della conoscenza.
Ora, non conosco più il peccato e sono diventato leggero, tanto …da volare.
Per questo, ora, la gioia e la felicità albergano nel mio cuore grande.
17-11-2014 (a Concettina Caputo)
Vorrei, invece, ritornare sul concetto dell’amore. Ti riporto, di seguito, due canti d’amore egiziani. Leggili con attenzione.
O fiore delle piante-mekhmekh,
il mio cuore è in bilancia (in accordo) con te,
e io farò per te ciò che egli (il mio cuore) desidera,
quando sono nel tuo abbraccio.
È la mia preghiera che ha dipinto il mio occhio;
vedere te ha illuminato i miei occhi.
Io mi sono avvicinata a te per vedere il tuo amore,
o principe del mio cuore!
Com’è bella questa mia ora!
Fluisce per me un’ora dall’eternità,
da quando giaccio con te.
È sia nel dolore che nella gioia
che tu hai esaltato il mio cuore!
Non lasciarmi!
Guarda ...... fiordalisi !
Il mio cuore appartiene a te
come il fiordaliso al grano.
Ogni cosa che tu vorrai,
tra le tue braccia poserò.
Tu, immagine del mio desiderio,
sei un balsamo per gli occhi.
Vedere te, al mio sguardo dà luce
e ti stringo forte a me
per sentire meglio il tuo amore,
tu, sposa del mio cuore.
Come è bella quest'ora !
Potesse - fra le tue braccia -
perdurare in eterno.
Tu mi facesti rinascere il cuore,
e ora, se gioisce o se piange,
non andare mai via da me, mai !
Come te li immagini, questi amanti dell’antico Egitto? Teneri, dolci, innamorati, appassionati. Anch’io. Ma ... riusciresti mai a immaginarli come fratello e sorella? Innamorati e amanti? Una simile idea ci scuote, ci fa rabbrividire. Nemmeno riusciamo a pensarla. Vero? Proviamo persino disgusto solo a costruire nella nostra mente una scena del genere. E se mai ci riuscissimo, la nausea ne sarebbe compagna.
Nella storia dell’Antico Egitto, però, vi sono unioni tra fratelli e sorelle, padri e figlie. I loro geni sono gli stessi dei nostri. Non ci sono state mutazioni che ci abbiano indotto a cambiare la nostra concezione dell’amore e del desiderio. Cosa deduci? La conclusione è chiara: i nostri sentimenti, le nostre concezioni, le nostre inclinazioni, non sono realmente nostri, ma del Sistema, che ci avvolge e ci governa. Nell’epoca degli egizi era naturale provare sentimenti per un fratello o una sorella. Il sistema lo permetteva. Anzi, per le famiglie reali, lo favoriva. Nella nostra società, invece, una tale eventualità è vietata e condannata (anche per evitare pericolose combinazioni genetiche tra consanguinei). Ma, a prescindere dalla genetica, chiediamoci: quanto è potente questo “re Sistema”? Quanto governa la nostra vita e i nostri sentimenti?
Una persona vissuta al tempo degli egizi, come Ramses, poteva serenamente amare sua sorella, senza alcun conflitto interiore. Ma oggi, la stessa persona non sarebbe in grado di provare quel sentimento: la sola idea genererebbe ripugnanza, nausea, disgusto.
Eppure, la molla che faceva innamorare i due “incestuosi” amanti egizi è la stessa che fa innamorare due qualsiasi fidanzati di oggi e cioè, l’istino sessuale. È facendo leva su di esso che il Sistema ci gestisce e ci fa “sentire” sentimenti e passioni e, credimi, molto spesso, quei sentimenti, non sono neanche nostri. Li “dobbiamo” sentire perché è così che deve essere. Così li vuole il Sistema.
Accade, quindi, che molte mogli si convincono di amare i loro mariti, e molti mariti si persuadono di amare le loro mogli. Dev'essere così, perché si sono sposati, altrimenti che moglie e marito sono? Salvo accorgersi, poi, che non trovano dentro di sé un reale supporto a sostegno di quel loro sentimento e allora i conti iniziano a non tornare. Si sentono legati, ma se si chiedono il perché, non sanno dare una risposta. E questo è un cattivo segno! Non possono fare a meno dell’altro/a, ma non trovano la ragione per questa dipendenza. E questo è un altro cattivo segno! Allora si sforzano di trovare somiglianze, di costruire affinità, di vedere virtù comuni … anche dove non ci sono; queste sono dannatamente necessarie per giustificare il loro legame che, altrimenti, rischia di crollare. Ma questo non può accadere, anzi non deve accadere, il Sistema lo vieta. E allora ci si deve sentire innamorati... a tutti i costi.
Ma l’amore, il vero amore, è altro. È qualcosa di sublime, di libero, di raro, è un volo oltre il confine delle aspettative sociali. Se senti solo dipendenza e legame, allora forse non è amore.
14-09-2015
Quattro parole che fanno riflettere sulla vita. Tributo all’universo femminile.
17-09-2015
"Non dar retta ai tuoi occhi, e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda col tuo intelletto, e scopri quello che conosci già, allora... imparerai come si vola."................. Richard Bach (Il gabbiano Jonathan Livingstone).
23-05-2016 (ad una cara amica ...adesso in volo)
C’era una volta,
un piccolo usignolo dalla voce incantevole che viveva in una bellissima gabbia dorata. Era triste e non poteva volare, ma all’interno di quella dimora si sentiva protetto. Trascorreva le giornate a cantare e saltellare e il suo unico fine era quello di piacere al padrone, il quale, costantemente, gli portava da mangiare.
Un giorno, un gabbiano si presentò dietro le sbarre e si mise a chiacchierare con l’usignolo. Parlando del più e del meno, il gabbiano gli raccontò che anch’egli, in passato, aveva vissuto in una gabbia, dalla quale era riuscito a scappare. Gli spiegò che gli uccelli potevano anche volare (e non solo saltellare) e che all’esterno della gabbia esisteva un mondo bello e meraviglioso, fatto di mari, foreste, monti e, soprattutto, di un infinito cielo azzurro in cui potersi librare senza peso e senza confini. L’usignolo rimase incuriosito e gli chiese come avesse fatto a venirne fuori. Il gabbiano, a quel punto, gli svelò un segreto che l’usignolo non conosceva e cioè che le porte di tutte le gabbie sono chiuse solo in un senso: dall’interno verso l’esterno. Tirando la porta verso l’interno, essa si apre.
Dopo quella volta, il gabbiano ritornò ripetutamente dall’usignolo. Ogni volta gli raccontava delle cose belle che aveva visto e lo invitava a scappare. L’usignolo, però, non era convinto. Nella gabbia si sentiva sicuro e protetto e non doveva preoccuparsi di procurarsi il cibo. Inoltre, si sentiva male ad abbandonare il padrone che lo aveva protetto e nutrito fino a quel momento. Il gabbiano allora gli spiegò che nel mondo oltre le sbarre il cibo abbondava e che volando alto non avebbe avuto nulla di cui temere.
Affascinato dai racconti del gabbiano, un bel giorno l’usignolo decise di aprire la porticina e corse a vedere il colore del vento. Volò sopra le case, oltre i cancelli, gli orti, le strade, scivolando tra valli fiorite … per poi scendere là dove il giorno si perde a cercarsi da solo, nascosto tra il verde[1].
Ben presto, però, l’usignolo, venne risucchiato dalla gabbia: una irresistibile forza interiore lo aveva spinto a ritornare dentro la sua angusta dimora. Nelle settimane successive l'usignolo ci riprovò, ma l’epilogo era sempre lo stesso. A risucchiarlo non erano misteriose forze esterne, venti impetuosi o vortici turbolenti, bensì una costituzionale debolezza interiore che gli impediva di imporsi e di determinarsi.
In tutti i tentativi il gabbiano cercava in ogni modo di aiutarlo e sostenerlo. Ma, nonostante tutto il suo impegno e tutto il suo amore, l’usignolo costantemente ripiombava nella triste gabbia.
Un giorno, dopo uno degli ennesimi tentativi falliti, l’usignolo, con voce fioca, disse al gabbiano che era stanco e che non aveva più forza per combattere. A quel punto, il gabbiano intuì che era giunto il momento di dover lasciare solo l’usignolo. L’abbandono avrebbe potuto magari indurlo a sviluppare la forza necessaria per liberarsi per sempre dalle sbarre. In ogni caso, se questo non fosse avvenuto, restargli accanto avrebbe prodotto solo un doloroso prolungamento dell’agonia.
Fu così che un giorno il gabbiano decise di lasciare l’usignolo “libero nella sua gabbia”.
Prese pertanto il volo e se ne tornò nell’azzurro del cielo da dove era venuto. Da lì, ogni giorno, egli scruta l’orizzonte per vedere se un dolce usignolo si leva in volo.
[1] Versi tratti da "Il sogno di Maria" della Buona Novella di De André.
17-03-2017 (pagina Facebook)
C’era una volta…
due coniugi molto innamorati. Si chiamavano Mohammed e Fatima, vivevano in un paese arabo e avevano due figli.
Fatima aveva un carattere allegro ed era un soggetto solare, intraprendente e poliedrico. Le piaceva fare molte cose e sapeva fare molte cose. In particolare, amava andare in bici e fare delle lunghe passeggiate in campagna, a contatto con la natura. Aveva un sogno: fare la giornalista.
La religione, però, nel suo paese, le andava contro: poneva, infatti, severe e indiscutibili restrizioni alle donne, per cui non poteva uscire da sola a passeggio, non poteva andare in bicicletta, doveva tenere sempre il velo in pubblico, non poteva fare lavori tipicamente maschili (come quello del giornalista), ecc.
Mohammed, invece, era un bonaccione, molto tollerante e molto buono, gran lavoratore, rispettoso marito e buon padre di famiglia. Non faceva mancare nulla a Fatima e, soprattutto, le voleva un gran bene… l’adorava.
Per effetto della globalizzazione dei media, Fatima scopre che in altre parti non lontane del mondo le donne possono uscire da sole, godere del vento e del sole sul viso, andare in bici, fare lunghe passeggiate tra la natura, fare cose che fanno anche gli uomini, finanche il giornalismo.
Più vede… più pensa… e più Fatima capisce che non ci sono motivi razionali per i quali una donna debba privarsi di queste gioie della vita.
Andare in bici, girare senza velo, passeggiare da sola tra i campi … non le sembravano peccati e, oltretutto, non toglievano nulla al suo caro Mohammed che amava perdutamente. Per cui, inizia a fantasticare su quelle cose che prima, a causa del condizionamento religioso, non osava neanche pensare, perché le trovava sconvenienti e inopportune per una donna.
Ma adesso è diverso. Adesso, Fatima ha compreso che quel suo precedente non-sentire, quel suo disprezzare quelle cose era, in realtà, il frutto di un bombardamento psicologico perpetuato sin dalla nascita e che lei lo aveva così assorbito da sentirlo come proprio, interno, naturale.
Comprese le dinamiche psichiche, sociali e religiose che sottendevano le restrizioni femminili, Fatima ne parla con Mohammed e cerca di spiegargli ciò che lei era riuscita a comprendere del mondo in cui vivevano, con lo spirito e l’ingenuità di una fanciulla. Gli chiese, quindi, il permesso di uscire, da sola, senza velo, di andare in bici e di fare la giornalista.
Mohammed, per quanto infinitamente buono, però, era un tradizionalista. Aveva tante virtù, ma era molto legato alla religione. Per cui, non comprendeva le cose che Fatima diceva. Anzi, le trovava sconce e, in un certo senso irritanti, nonostante la sua costituzionale indole buona.
Fatima gli voleva un gran bene e si sforzava di aprirgli gli occhi e di “svegliarlo” per fargli capire, col cuore in mano, che a lei mancavano quelle cose che erano vietate alle donne e che, ragionandoci, non erano affatto cose cattive, perché non facevano male a nessuno.
Purtroppo, Mohammed non capiva, non poteva capire perché non riusciva a sottrarsi ai condizionamenti sociali e religiosi perpetuati anche su di lui sin dalla nascita. Avrebbe voluto tanto accontentare Fatima, perché l’amava alla follia, però, la sola idea che ella potesse uscire da sola, andare in bici e farsi vedere dagli altri uomini, gli lacerava l’anima. Non dormiva più, era diventato triste e introverso, parlava poco e iniziava a vedere Fatima con sospetto e sotto un’altra luce. Insomma, iniziava a perdere la stima nei suoi confronti e iniziava a considerarla una donnicciola frivola che si era messa i ceci in testa.
Per cui, dopo tanto meditare e soffrire, con molta tenacia e determinazione si oppose alle richieste di Fatima e le rifiutò il suo consenso.
Fatima capì i limiti del suo amato coniuge. Lo amava veramente tanto e per non perderlo e per non sacrificare l’intera famiglia, decise di rinunciare alle sue aspirazioni e di sacrificarsi per il bene di tutti. In poco tempo, Mohammed tornò a volerle un gran bene e a vederla nuovamente sotto la splendente luce di prima. Adesso, lui non soffriva più e ogni cosa era rientrata al suo posto. Così “tutti” vissero felici e contenti.
Tutti… ma non Fatima !
Fine (apparente) della storia.
Continua della storia
Un brutto giorno Fatima si ammala e muore. Poco prima di spirare, passa in rassegna i giorni trascorsi della sua vita e li anella uno ad uno sul filo della propria esistenza. Si rende così conto che la collana della sua vita era fatta da tante perline molto simili tra loro. Non c’erano perle rotte o brutte ma erano tutte grigie ed opache, terribilmente monotone. Tradotto: nella vita non le era mancato nulla e non aveva subito grandi sofferenze, ma le era mancata la cosa più preziosa: la libertà. La libertà di andare in bici, di sentire il vento e il sole sul viso, di osservare la natura, di fare la giornalista … la libertà di essere sé stessa. Sarebbe stata disposta anche a soffrire, pur di vivere la propria vita liberamente e provare l’ebrezza per quelle cose che, per amore, non aveva potuto fare. Però, pensava, fiduciosa, tra sé e sé, negli ultimi istanti prima di spirare: per lo meno adesso il buon Dio ne terrà conto del mio sacrificio e mi ricompenserà per tutto ciò che mi è stato negato.
Con questo pensiero nella mente e nel cuore, Fatima chiude gli occhi e muore. Ma, al di là del buio della morte, non c’è il fiume sacro da attraversare, né una nuova vita da godere, non ci sono bici, né sole, né vento e, soprattutto, non ci sono gli occhi neri e profondi di quel viso che tanto aveva amato (Mohammed).
È questo l’amore?
Qual è il vero amore del titolo della storia? Quello di Fatima che si è sacrificata per il bene di tutti? Oppure, quello di Mohammed che l'amava alla follia, ma che non sopportava l'idea della libertà che Fatima desiderava? O, piuttosto, quello "concesso" dal sistema, il vero deus ex machina che, da una parte imponeva a Mohammed di stare male e di non accettare le richieste di Fatima e, dall'altra, convinceva Fatima a rassegnarsi e serenamente rinunciare alle sue pretese di libertà?
E chi ha avuto a cuore la vita "sprecata" di Fatima?
Chi ci ha guadagnato in questa storia? Il sistema!
La storia non è (come potrebbe apparentemente sembrare) una storia di religione. La religione, nella vicenda narrata, è solo un pretesto per evidenziare il ruolo che il sistema ha nella vita di ognuno di noi, una vita che sentiamo essere nostra ma che tale non è …
a meno che non ci svegliamo dal torpore esistenziale che narcotizza le nostre menti e ...
21-07-2019 (pagina Facebook)
Molto (ma proprio molto) spesso l’amore è possesso.
Magari non ce ne accorgiamo, ma il mondo della realtà è pieno di esempi quotidiani di possesso, spesso confusi con espressioni di amore.
- Ho bisogno di te per stare bene.
- Senza di te non sono nulla.
- Stiamo così bene noi due da soli che non abbiamo bisogno di nient’altro.
- Quello che vuoi amore!
- Facciamo come dico io tesoro.
- Amore mi piace questo vestito vorrei comprarlo; che ne dici?
- Per favore, non andartene, se mi lasci muoio.
Il possesso è una condizione di dominio. Si vuole possedere ciò che attira e viene percepito come esterno, ma che può allontanarsi. Esso rappresenta un tentativo di controllare l’altro che viene percepito come sfuggente, generando insicurezza, paura, smania di afferrare ciò che non può essere fermato.
È atteggiamento molto comune pensare che le persone diventino nostre nel momento in cui si stabilisce un accordo (fidanzamento o matrimonio). Questo schema dell’amore ci viene inculcato da piccoli e continuamente ribadito dai media, dalla religione, dalla letteratura, dal contesto sociale.
Considerare la persona una proprietà, può portare alla violenza (stalking, mobbing, violenza sessuale, morte). Molto più spesso, però, la condizione di possesso porta impercettibilmente alla coazione (interferenza sulla volontà altrui volta a togliere la libertà d’azione). L’Amore, invece, non porta mai alla violenza, né alla coazione.
Gli strumenti di cui il possessore si serve (consapevolmente o inconsciamente) per mettere in atto il suo intento sono insidiosi e subdoli e sono
1) l’isolamento, cioè il tentativo di isolare l’altro, allontanandolo dal contesto sociale e tenerlo solo vicino a sé. Una relazione esclusiva che ben presto taglia fuori le relazioni sociali, creando una sorta di barriera entro la quale vive solo la coppia (rapporto esclusivo ed escludente).
2) La dipendenza psicologica, cioè il tentativo di rendere il partner dipendente da sé. Consiste nel proporsi come sostegno economico, gestore finanziario, risolutore di problemi burocratici, autista, guida per ogni cosa, ecc. Questo aspetto è davvero molto insidioso perché all’inizio viene interpretato (dal partner “posseduto”) come un vantaggio, in quanto gli risparmia il peso di numerosi impegni che la vita coniugale comporta. È solo dopo che egli si rende conto che da solo riesce a fare ben poco o quasi nulla e che, per qualunque cosa, ha bisogno della compagnia dell’altro (confondendo addirittura questa patologica dipendenza per una naturale conseguenza dell’amore).
I caratteristici sintomi dell’isolamento e della dipendenza psicologica vengono spesso scambiati per disturbi d’ansia e sono:
- mancanza di autostima,
- vergogna,
- paura del giudizio altrui,
- paura dell’abbandono e paura di restare soli (il distacco dal partner viene visto come una catastrofe o la fine della propria esistenza),
- senso di dipendenza verso qualcun altro,
- senso di colpa verso il partner,
- senso di solitudine.
In conclusione
1. la relazione di possesso non è una relazione d’amore.
2. La condizione di possesso è subdola e non viene solitamente riconosciuta.
3. Il possesso si serve dell’isolamento e della coazione.
4. I sintomi da possesso vengono scambiati per disturbi d’ansia.
Noi non siamo proprietà di nessuno, apparteniamo solo a noi stessi e nessun accordo o contratto può renderci proprietà di altri.
L'altro non ci appartiene; solo il Sé è nostro (e forse neanche quello)!
29-04-2020 (pagina FaceBook)
Avere a disposizione una mega confezione di Lego e partorire una scialba casetta seguendo il modello della confezione oppure fregarsene delle istruzioni e “inventare”.
Nel primo caso (figura 1) l’esecuzione è semplice ed è difficile sbagliare: ogni passaggio è dettagliato, basta semplicemente seguire le istruzioni. È tutto previsto e programmato e il risultato è sicuro, ma anche scontato e obbligato. Terminata la realizzazione il gioco finisce e con esso il piacere. Il componimento viene riposto su un ripiano come trofeo da esibire a disinteressati spettatori.
Nel secondo caso (figura 2), invece, non ci sono istruzioni né regole, ma neanche limiti. Il risultato è incerto, vero, ma con un po’ di fantasia e determinazione si riescono a creare composizioni straordinarie, con le quali giocare e continuare a divertirsi, coinvolgendo anche gli altri, che vi partecipano attivamente e non come semplici spettatori.
Il potere della mente è grande. Perché darsi dei limiti e accontentarsi?