Questa sezione contiene riflessioni su temi a caratere psicologico/filosofico tratti da messaggi da me inviati ad amici o pubblicati sulla pagina Fcebook.
03-08-2012 (dedica per il 18° compleanno di figlio Francesco)
Il vascello è pronto
e la vela è già dispiegata.
Fra poco s’alzerà il vento e la vela si gonfierà
trascinando sull’acqua la barca della tua vita.
Il varo di una imbarcazione avviene solitamente nel porto,
per scivolamento di poppa.
Spesso la barca non riesce ad abbandonare il porto
perché la vela è troppo piccola
o perché l’acqua è bassa
o perché il vento è flebile
o forte e avverso.
Talvolta, invece, l’imbarcazione riesce a conquistare il largo
ma, per timore dell’incerto o per problemi strutturali,
si limita a navigare a poche miglia dalla costa
affogando i sogni in mezza gamba d’acqua.
La tua barca è però particolare
perché è stata costruita a bordo di un’altra,
nel corso di una coraggiosa ed incerta
navigazione di questa sulla rotta d’oriente.
Sulle onde dell’oceano è stata concepita
e per resistere ad esse è stata progettata.
Molta cura e tanto amore sono stati riposti nell’assemblaggio
affinché lo scafo risultasse forte, solido e compatto.
Leggera come il vento, robusta come la roccia,
forte ed essenziale, non ha zavorra né orpelli.
Il suo punto di forza è la vela,
imponente e maestosa,
leggera e resistente,
splendente come il sole.
Essa rappresenta il cuore della barca,
il motore della tua vita,
le ali dei tuoi sogni.
Con essa (vela) puoi correre velocemente,
solcare i mari più profondi,
affrontare le tempeste,
puoi persino andare contro vento.
E quando inevitabilmente attraverserai le stagnanti acque della bonaccia,
dove il mare si azzittisce e non c’è più vento né movimento,
dove le barche solitamente si fermano e la nebbia le avvolge,
dove i cadaveri di uomini e donne,
tanti e tanto belli,
tutti morti giacciono nel fondo del mare ad imputridire,
tu potrai con essa volare,
uscire dalla bonaccia e dalla nebbia,
osservare dall’alto le miserie umane,
potrai finanche staccarti dallo scafo
e volteggiare nel cielo limpido dell’universo
e navigare verso quell’Oriente
dove ogni sogno tende,
ogni speranza si rifugia
e dove lo spirito si smarrisce.
Buon viaggio figlio mio
20-04-2012 (a Aldo Ummarino)
«Antonio, sei stato davvero illuminante, offrendomi strumenti preziosi. Spero di riuscire a diventare un buon “chimico” dell’amore. Tuttavia, c’è un punto che ancora mi sfugge: come si fa a capire che la donna che incontriamo è davvero colei che amiamo? »
Permettimi di risponderti con una metafora, che spero possa chiarire la questione.
La prossima volta che sarai a casa, siediti al pianoforte e con la mano sinistra suona un tasto qualunque, per esempio un Do. Chiudi gli occhi e, continuando a suonarlo ogni tanto, prova con la mano destra a cercare un altro tasto che, suonato insieme a quello della mano sinistra, produca un suono che ti colpisca particolarmente.
Noterai subito che alcuni tasti, come il Re, il Si o il Fa, suonati insieme al Do, creano un suono sgradevole, quasi fastidioso, pur essendo toni innocui se suonati da soli.
Altri, come il Sol o il Mi, danno invece un suono piacevole, che invita a fermarsi, a pensare di aver trovato la giusta combinazione. Ma se avrai pazienza e continuerai a cercare, scoprirai che l’abbinamento che davvero fa vibrare il cuore è quello in cui il tasto della mano destra è un Do come quello della sinistra, ma in un’ottava diversa.
Questa armonia tra due tasti diversi, eppure uguali nel nome, genera un suono nuovo, che il cuore riconosce come ideale. È un suono che non somma semplicemente i singoli toni, ma li integra, dando origine a una nuova fondamentale e a nuove armoniche.
Spero che questa immagine renda chiaro cosa intendo.
…E ricorda, un’ultima cosa: l’amore, una volta seminato, ha bisogno di essere coltivato, curato e nutrito, proprio come un seme, un germoglio, una pianta che timidamente si affaccia alla luce. È la fase della germinazione la più fragile, la più bisognosa di attenzioni; è qui che il rischio di perdere tutto è più grande.
Ma se la cura non viene meno, quel piccolo germoglio affonderà radici profonde, capaci di cercare da sole l’acqua e i nutrienti. E allora la pianta crescerà forte e rigogliosa, necessitando di meno cure ma offrendo in cambio i suoi frutti più dolci.
Non dimenticare mai, però, che anche la pianta più maestosa ha bisogno del sole e dell’acqua per vivere e continuare a fiorire.
03-03-2013 (a Primiano Dentale)
Caro Primiano,
mi rende enormemente felice vederti porre delle domande critiche e nient’affatto banali o scontate. Parto dall’ultima delle domande che mi poni: «…cosa significa quando dici che la condivisione interiorizzata è la spia più sensibile dell’Amore?»
Vedi, Primiano, se tu riesci ad interiorizzare il tuo altro, riesci ad amarlo. Lo sforzo di interiorizzazione ti porta, per empatia, a comprendere e condividere (nel senso di sentire dentro di te) le sensazioni e i sentimenti dell’altro. Persino i suoi errori non ti sembreranno più tali, perché riuscirai a leggere il suo operato dal “suo” punto di vista. Ma quando tu fai questo, non fai altro che includere nel tuo Io il suo e a questo punto viene a mancare l’antitesi degli Ego che è la causa prima di tutti i mali … il MALE, appunto.
Aspetta, non brontolare, provo a spiegare meglio quest’ultimo concetto con un esempio. Tu, intanto, tieni a mente che uno degli istinti dominanti dell’uomo (e degli altri animali) è quello di sopraffazione (cioè, prevalere sugli altri). Questo, non scordarlo, sta scritto nei nostri geni e non ci possiamo sottrarre.
Adesso, se io ti dicessi una cosa offensiva, accompagnandola con uno schiaffo, tu ti arrabbieresti. Se, invece, io ti pestassi accidentalmente un piede, procurandoti un dolore fisico maggiore di quello prodotto dallo schiaffo, tu non ti arrabbieresti.
Nel primo caso tu ti arrabbi non per il dolore fisico inferto dallo schiaffo, ma perché il tuo Io si è sentito messo in cattiva luce e umiliato dal mio Io. Nel secondo caso, invece, tu non ti arrabbi perché il tuo Io non è stato in alcun modo scalfito, nonostante il maggiore dolore fisico procurato.
Nel primo caso scatta l’antitesi degli Ego: il tuo Io si sente sopraffatto ed umiliato dal mio Io e, per questo, si oppone e lo avversa. Nel secondo, invece, non c’è alcuna antitesi.
Ritornando all’interiorizzazione: se il tuo Io riesce ad espandersi e a includere quello di un altro, non può esserci antitesi degli Ego (perché non c’è un “altro” Io con cui conflittualizzare) e, quindi, non può esserci offesa. Se non c’è offesa non c’è contrasto e se non c’è contrasto non c’è antipatia e se non c’è antipatia non c’è guerra.
Mi chiederai: «Ma da dove scaturisce la necessità del gene del male legato all’istinto di sopraffazione?»
Se pensi questo è perché ti sfugge un passaggio importante. La natura ha la necessità di garantire, prima di tutto, la continuità e la sopravvivenza della specie.
Se non ci fossero stati gli istinti, col cavolo che l’uomo sarebbe sopravvissuto all’implacabile (ma necessaria) forza selettiva della natura. Tu pensi davvero che l’uomo avrebbe fatto tanti figli se non ci fosse stato l’istinto sessuale? Ovvio che no! Ma in questo modo, come avrebbe potuto garantire la continuità della propria specie che veniva giornalmente decimata da malattie e aggressioni varie della natura?
Allora, il meccanismo della selezione naturale cosa ha fatto? Ha selezionato e favorito la mutazione genetica che comportava per l’uomo l’irrefrenabile istinto della pulsione sessuale.
Mi potresti obiettare: «Ma, visto che c’era, perché non favorire anche nella donna il gene della pulsione sessuale?» 😊
Non l’ha fatto perché era svantaggioso. Così facendo, infatti, la donna non sarebbe più stata una buona madre e avrebbe pensato più a xxxx che ad accudire i propri figli. Non a caso De Andrè la descrive come “femmina per un giorno e madre per sempre”. Come vedi niente è affidato al caso e non c’è affatto bisogno di scomodare il “mistero di Dio” per interpretare talune cose.
… Pertanto, l’uomo è santo quando é solo, mentre è geneticamente obbligato ad essere malvagio in collettività (come caxxo parlo bene oggi 😊!).
Il compito più arduo consiste nel comprendere appieno questo paradosso: è soltanto abbracciando questo aspetto “naturale” che si possono affrontare, e persino superare, tutte le sfide ad esso connesse con relativa serenità.
…In conclusione, prima di porci il problema di amare — o di insegnare ad amare — è necessario risolvere le tensioni profonde che agitano l’Io, l’Es e il Super-Io. Se non si compie questo passo coraggioso, ogni altro sforzo rischia di risultare vano. Quelle che riteniamo le nostre conquiste più nobili sono, spesso, soltanto trofei da esibire nella scintillante vetrina del Super-Io: ornamenti con cui compiacerci e cercare l’approvazione altrui.
È per questo che ritengo vani gli insegnamenti impartiti nelle pieghe del catechismo, negli incontri ACR o in mille altri corsi e incontri. Anzi, paradossalmente, possono persino aggravare la situazione. Credimi, non sto esagerando. Rifletti con attenzione — e so che lo farai, perché sei intelligente —: convincere bambini, ragazzi o adulti che certi peccati non vanno commessi e che, invece, si devono perseguire opere buone e preghiere, non produrrà mai il frutto sperato. Servirà solo ad alimentare il Super-Io, generando frustrazioni e fragilità psicologiche.
Bisogna, caro Primiano, spazzare via tutti i nostri precedenti investimenti di vita e ricominciare davvero da zero — non da tre, non da mille — con un unico obiettivo: la conoscenza profonda della nostra mente. Solo dopo potremo insegnare agli altri; solo allora, forse, il mondo potrà davvero cambiare.
Quindi, non affannarti a diffondere l’amore — perché, almeno per ora, non ce l’hai ancora — ma limitati a rimuovere il male, perché questo ora è nelle tue mani. Solo così, l’amore potrà emergere spontaneo, come un fiore inatteso che sboccia dal terreno rinnovato.
24-09-2014 (a Concettina Caputo)
Vedi, Concettina, quando avevo gli occhi appannati (mutuando una tua bella espressione)
vivevo in un mondo di proibizioni,
la trasgressione delle quali si chiamava "peccato".
Per quanto mi impegnassi a sfuggirgli,
mi ritrovavo sempre immerso fino al collo
e vedevo cose belle tingersi di nero e impregnarsi di colpe.
Per questo, la tristezza e la delusione albergavano nel mio piccolo cuore.
Da quando sono fuggito da quel mondo,
non conosco più le proibizioni e, di conseguenza,
non trasgredisco più e non sono più costretto a scappare.
Ora, avendo la possibilità di fermarmi, vedo cose bellissime e meravigliose
che, a guardarle bene, sono le stesse di prima, ma lavate dalla pioggia della libertà e della conoscenza.
Ora, il peccato non è più un’ombra nel mio cammino e sono diventato leggero, tanto …da volare.
Per questo, ora, la gioia e la felicità abitano il mio cuore grande.
17-11-2014 (a Concettina Caputo)
Vorrei soffermarmi ancora una volta sull’amore, quel mistero antico e universale che ha ispirato poeti e cuori di ogni tempo. Ti porto con me in un viaggio nel cuore dell’antico Egitto, attraverso due canti d’amore che parlano di passione e dolcezza, di un desiderio puro e ardente.
O fiore delle piante-mekhmekh,
il mio cuore è in bilancia (in accordo) con te,
e io farò per te ciò che egli (il mio cuore) desidera,
quando sono nel tuo abbraccio.
È la mia preghiera che ha dipinto il mio occhio;
vedere te ha illuminato i miei occhi.
Io mi sono avvicinata a te per vedere il tuo amore,
o principe del mio cuore!
Com’è bella questa mia ora!
Fluisce per me un’ora dall’eternità,
da quando giaccio con te.
È sia nel dolore che nella gioia
che tu hai esaltato il mio cuore!
Non lasciarmi!
Guarda ...... fiordalisi !
Il mio cuore appartiene a te
come il fiordaliso al grano.
Ogni cosa che tu vorrai,
tra le tue braccia poserò.
Tu, immagine del mio desiderio,
sei un balsamo per gli occhi.
Vedere te, al mio sguardo dà luce
e ti stringo forte a me
per sentire meglio il tuo amore,
tu, sposa del mio cuore.
Come è bella quest'ora !
Potesse - fra le tue braccia -
perdurare in eterno.
Tu mi facesti rinascere il cuore,
e ora, se gioisce o se piange,
non andare mai via da me, mai !
Immaginali, questi amanti dell’antico Egitto: teneri, dolci, appassionati. Ma ora chiediti — riesci a immaginarli fratello e sorella? Amanti? Questa sola idea ci scuote, ci turba, ci fa rabbrividire. Nel nostro tempo, persino pensarlo provoca un senso di disgusto, una nausea che ci avvolge.
Eppure, nella storia degli Egizi, questi legami erano realtà comuni, talvolta addirittura voluti e valorizzati, soprattutto tra famiglie reali. I loro geni scorrono ancora in noi, immutati. Nessuna mutazione ha cambiato l’essenza del nostro sentire, dei nostri desideri. Allora cosa significa? Significa che i nostri sentimenti non sono affatto soltanto nostri, ma il frutto di un sistema più grande che ci plasma, che ci detta chi e cosa dobbiamo amare.
In un tempo e in un luogo dove quel Sistema era diverso, amare la propria sorella era naturale, privo di conflitti. Oggi, lo stesso sentimento genera rifiuto, disgusto, paura. Ma l’istinto che fa battere quei cuori antichi è lo stesso che oggi accende ogni passione: l’istinto sessuale. Ed è su quella molla che il Sistema lavora, inducendoci a “sentire” ciò che dobbiamo sentire, a vivere passioni che, spesso, non ci appartengono davvero.
Così molte mogli si convincono di amare i loro mariti, e molti mariti credono di amare le loro mogli. Dev’essere così, perché si sono scelti, perché hanno giurato fedeltà. Ma dentro, spesso, quel sentimento si rivela fragile, superficiale. Ci si sente legati senza sapere il perché. E questa è la prima crepa nel vetro dell’anima. Ci si aggrappa l’uno all’altra, senza sapere se è amore o bisogno, senza una risposta vera — un altro segnale che qualcosa non va. Allora si cercano affinità, somiglianze, motivi per giustificare un legame che rischia di crollare. Ma il Sistema impone che quel legame resti saldo, a ogni costo. Bisogna sentirsi innamorati, anche se quel sentimento è solo una maschera.
Ma l’amore, il vero amore, è un’altra cosa. È un soffio leggero e potente, libero da catene e imposizioni. È raro, sublime, un volo che supera ogni confine, sociale, culturale, mentale. Se senti solo dipendenza e costrizione, allora forse non è amore.
14-09-2015
Quattro parole che fanno riflettere sulla vita. Tributo all’universo femminile.
17-09-2015
"Non dar retta ai tuoi occhi, e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda col tuo intelletto, e scopri quello che conosci già, allora... imparerai come si vola."................. Richard Bach (Il gabbiano Jonathan Livingstone).
23-05-2016 (ad una cara amica ... chiusa in gabbia)
C’era una volta un piccolo usignolo dalla voce incantevole, prigioniero in una gabbia dorata di rara bellezza. Triste, incapace di spiccare il volo, trovava però in quella dimora una fragile protezione. Passava le giornate a cantare e saltellare, con un unico scopo: piacere al suo padrone, che ogni giorno gli portava il cibo con dedizione.
Un giorno, dietro le sbarre apparve un gabbiano, che iniziò a chiacchierare con l’usignolo. Tra parole leggere e racconti di vento, il gabbiano svelò di aver vissuto anch’egli rinchiuso in una gabbia, da cui era riuscito a fuggire. Gli parlò di ali non più destinate a saltellare, ma nate per librarsi leggere e senza catene, di un mondo infinito al di là delle sbarre: mari sconfinati, foreste silenziose, montagne maestose e, soprattutto, un cielo azzurro e senza confini dove poter danzare senza peso.
L’usignolo ascoltava rapito e, con un filo di speranza, chiese come fosse riuscito a varcare quella soglia invisibile. Il gabbiano allora gli rivelò un segreto tanto semplice quanto sorprendente: le porte di tutte le gabbie si aprono soltanto in un verso, dall’interno verso l’esterno. Basta tirare la porta verso di sé, e il cammino si dischiude.
Quelle parole accendevano un piccolo fuoco nel cuore dell’usignolo, ma la paura era ancora più forte della curiosità. Così, il gabbiano tornava spesso, portando racconti di cieli sconfinati e di terre che il volo può toccare. Ogni racconto era un invito gentile, ma l’usignolo restava esitante: la gabbia, con tutte le sue limitazioni, era l’unico mondo che conosceva, un rifugio sicuro dove non mancava mai il cibo e dove il padrone, con le sue attenzioni, era un’ombra affettuosa.
Passarono giorni e notti, e l’usignolo cominciò a sperimentare piccoli gesti di libertà, aprendosi a nuove possibilità senza però allontanarsi dalla gabbia. Una volta, timidamente, spinse la porticina; un’altra, si avventurò solo fino al ramo più vicino fuori dalla gabbia. In quei brevi assaggi di volo, il mondo sembrava grande e attraente, ma l’ignoto incuteva ancora timore.
Solo dopo molte visite del gabbiano e altrettanti tentativi esitanti, un mattino d’estate l’usignolo trovò il coraggio di aprire completamente la porticina. Si librò nell’aria, volando sopra tetti, giardini e strade, sfiorando valli fiorite… fino a posarsi dove il giorno si perde nel verde [1], alla ricerca di sé stesso.
Tuttavia, nonostante la meraviglia del volo, un’ombra profonda lo tratteneva. Ogni volta che l’usignolo tentava di allontanarsi troppo, una forza invisibile, fatta di dubbi e paure radicate, lo richiamava indietro verso l’angusta prigione. Nei giorni seguenti ripeté più volte il viaggio: a volte più lontano, a volte più vicino, ma sempre risucchiato da quel vortice di incertezze interiori che gli impediva di trovare davvero la libertà.
Il gabbiano rimaneva accanto a lui, paziente e amorevole, offrendo sostegno e incoraggiamento, ma la fragile natura dell’usignolo lo riportava ogni volta nel triste abbraccio della sua gabbia.
Finché, stanco e senza più forza, un giorno l’usignolo confessò, con voce flebile, al gabbiano la sua resa. Fu allora che il gabbiano comprese: era tempo di lasciarlo solo. Solo l’abbandono, forse, avrebbe potuto suscitare in lui la forza di spezzare davvero le sbarre. Restare avrebbe solo prolungato quell’agonia silenziosa.
Così, un giorno, il gabbiano prese il volo e tornò all’azzurro sconfinato da cui era venuto, lasciando l’usignolo “libero nella sua gabbia”. E da lontano, ogni giorno, scruta l’orizzonte, sperando di vedere un dolce usignolo finalmente spiccare il volo.
[1] Versi tratti da "Il sogno di Maria" della Buona Novella di De André.
17-03-2017 (pagina Facebook)
C’era una volta…
in un angolo di mondo arabo, una coppia unita dall’amore: Mohammed e Fatima. Avevano due figli e una vita semplice, ma dentro di loro ardeva un fuoco diverso. Fatima era una donna solare, vivace, piena di curiosità e desideri. Amava la bici, le lunghe passeggiate immerse nella natura, il canto del vento tra gli alberi. Sognava di diventare giornalista, di raccontare storie, di guardare il mondo con occhi liberi.
Ma quel sogno, in quel Paese, si infrangeva contro muri invisibili ma implacabili: la religione imponeva leggi dure e ferree alle donne. A Fatima non era permesso uscire da sola, né pedalare libera sotto il sole; il velo era obbligatorio, e il mondo del lavoro riservato agli uomini. Era come vivere in una gabbia d’ombra, dove il suo spirito voleva volare, ma le ali erano legate.
Mohammed, uomo buono e paziente, lavoratore instancabile e marito affettuoso, amava Fatima con tutta l’anima. Non le faceva mancare nulla, ma dentro di sé custodiva un attaccamento alle tradizioni, radicato e profondo. Quando Fatima, grazie ai media e alla globalizzazione, scoprì che altrove le donne potevano camminare sole, sentire il vento sul viso, andare in bicicletta e seguire le proprie passioni, il suo cuore si aprì a una nuova consapevolezza.
Più vedeva quel mondo possibile, più sentiva crescere dentro di sé una domanda: perché a lei tutto questo era proibito? Perché quelle libertà erano riservate solo agli uomini? Quei desideri, una volta nascosti dietro il velo del timore e dell’abitudine, ora brillavano limpidi e insopprimibili.
Con delicatezza, Fatima parlò con Mohammed, cercando di fargli comprendere quel nuovo sguardo sul mondo, la voglia di libertà che lacerava il suo cuore. Chiese il permesso di uscire senza velo, di andare in bici, di inseguire il sogno di diventare giornalista. Mohammed ascoltò, ma il suo amore si scontrò con le catene invisibili della tradizione. Non riusciva a liberarsi dalla paura, dal giudizio sociale, dal peso degli occhi altrui.
Il suo cuore si fece triste e tormentato. Vedeva Fatima con sospetto, come se quei desideri fossero un tradimento, una frivolezza che minava la loro famiglia. Non riusciva a concederle quella libertà, anche se la amava più di ogni cosa. Dopo molti giorni di lotta e dolore, oppose un rifiuto deciso.
Fatima comprese i limiti dell’uomo che amava. Per amore di lui, per il bene della famiglia, scelse di rinunciare ai suoi sogni, di nascondere il fuoco dentro di sé. Così Mohammed tornò sereno, il suo amore tornò a brillare come prima. Tutto sembrava tornato al proprio posto.
Tutti… tranne Fatima.
Fine (apparente) della storia.
Continua della storia
Un brutto giorno, Fatima si ammala gravemente. Mentre la vita le sfugge lentamente, nei suoi ultimi istanti passa in rassegna i giorni trascorsi, come per raccogliere in mano ogni singola perla che ha composto la collana della sua esistenza. Le osserva una ad una, e in quel silenzio interiore si accorge che la sua collana è fatta di tante perline molto simili: nessuna spezzata, nessuna sbrecciata, ma tutte grigie, opache, segnate da un’inedita monotonia.
Non le era mancato nulla di materiale, né aveva conosciuto grandi sofferenze. Ma ora, in quella tenue luce che precede l’addio, comprende la mancanza più profonda: la libertà. La libertà di andare in bicicletta, sentire il vento che accarezza la pelle, il sole che riscalda il viso, di osservare il mondo naturale con occhi curiosi e innamorati. La libertà di scrivere, di raccontare, di essere semplicemente sé stessa.
Avrebbe voluto anche soffrire, se solo fosse servito a vivere quella vita libera, a provare l’ebrezza di quei momenti negati per amore, per paura, per imposizioni. Ma mentre il respiro si fa lieve, una speranza ancora la sostiene: «Forse, ora, il buon Dio terrà conto del mio sacrificio e mi ricompenserà per tutto ciò che mi è stato tolto.»
Con questo fragile conforto nel cuore, Fatima chiude gli occhi e lascia andare il suo ultimo respiro.
E oltre il buio della morte, niente fiumi sacri da attraversare, nessuna nuova vita da abbracciare. Non ci sono biciclette, né vento, né il calore del sole. E soprattutto, non ci sono più quegli occhi neri e profondi, il volto che aveva tanto amato (Mohammed).
È questo l’amore?
Qual è il vero amore della storia? Quello di Fatima, che ha sacrificato sé stessa per il bene di tutti? O quello di Mohammed, che l’amava alla follia ma non sopportava l’idea della libertà che lei bramava? O forse è l’amore imposto dal sistema, quel grande deus ex machina che, da una parte, costringe Mohammed a soffrire e negare, e dall’altra convince Fatima a rassegnarsi e piegarsi?
Chi si è davvero preso cura della vita “sprecata” di Fatima? Chi ha guadagnato da tutto questo? Il sistema.
Questa storia non è una semplice narrazione di religione. La religione è solo un pretesto per mostrare come il sistema plasmi le nostre vite, vite che crediamo nostre ma che non lo sono, a meno che non ci risvegliamo dal torpore esistenziale che anestetizza le nostre menti e…
21-07-2019 (pagina Facebook)
Molto spesso, l’amore si nasconde dietro il volto del possesso. Potremmo non accorgercene, ma ogni giorno siamo testimoni di gesti, parole, sguardi che travestono il dominio sotto le sembianze di un affetto.
"Ho bisogno di te per sentirmi completo."
"Senza di te, non sono nulla."
"Noi due, insieme, non ci serve nient’altro."
"Fai come dico, amore, tutto per noi."
"Ti piace questo vestito? Vogliamo prenderlo insieme?"
"Per favore, non andartene. Se mi lasci, muoio."
Il possesso è una catena invisibile. È il desiderio di trattenere ciò che attrae, di mantenere vicino ciò che può svanire, di fermare il vento che ci sfiora e ci sfida a seguirlo. È il tentativo di piegare l’altro, di incatenarlo a sé, ma l’altro è sempre più lontano, sempre più sfuggente, e così nasce la paura: la paura di perdere, la smania di trattenere ciò che è destinato a muoversi in libertà.
Fin da bambini ci insegnano che l’amore è una forma di possesso. La società, i media, la religione, la letteratura ci trasmettono continuamente l’idea che il legame, siano essi fidanzamento o matrimonio, trasformi l’altro in parte della nostra proprietà. Ma l’altro non è nostro. Non possiamo possedere un’anima, né un corpo.
Eppure, molti sono convinti che un amore che non è possesso non sia davvero amore. La violenza, però, si nutre di questa illusione. Quando si vede l’altro come proprietà, nascono conflitti che vanno oltre il rispetto: stalking, mobbing, violenza sessuale, morte. Più sottile, eppure più pervasivo, è l’amore che diventa prigione. Il possesso avvolge l’altro in una ragnatela impercettibile, fatta di isolamento, di coercizione, di manipolazione.
Gli strumenti di chi desidera possedere sono insidiosi, subdoli, invisibili. Eppure, agiscono come ombre silenziose, modellando la realtà di chi li subisce:
L'isolamento: È il tentativo di separare l’altro dal mondo, di costruire una prigione dorata che esclude tutto, tranne la coppia. Il mondo esterno viene ostacolato, e l’altro diventa dipendente dalla relazione esclusiva, dove ogni cosa diventa escludente.
La dipendenza psicologica: È un gioco sottile, dove l’altro diventa indispensabile in ogni aspetto della vita. Inizialmente si maschera da sostegno, da supporto, da amante protettivo. Poi, con il tempo, la dipendenza cresce, e si diventa incapaci di fare anche i gesti più semplici senza l’altro. L'amore, da libertà, si trasforma in necessità, e la libertà diventa una chimera.
I sintomi di questa prigionia psicologica si mascherano da disturbi d’ansia. Si camuffano da paure e insicurezze, ma sono frutto di un amore che è possesso, non libertà:
Manca l’autostima, perché ci si sente incompleti senza l'altro.
Il giudizio altrui diventa una montagna da scalare, un peso che schiaccia.
La paura dell’abbandono ci attanaglia, come una catastrofe imminente.
Il distacco dal partner sembra annientare la propria esistenza, come se senza di lui non si potesse respirare.
Si è pieni di sensi di colpa e paura, come se ogni emozione fosse un atto di disobbedienza.
In conclusione:
La relazione di possesso non è un atto d’amore. È una prigione che si nasconde sotto il nome di passione.
Il possesso è subdolo, e spesso non viene riconosciuto fino a quando non è troppo tardi.
Il possesso si avvale dell’isolamento e della coercizione, per togliere la libertà all’altro.
I sintomi di possesso vengono confusi con disturbi d’ansia, quando, in realtà, sono il segno di un amore malato.
Noi non apparteniamo a nessuno, se non a noi stessi. Non siamo proprietà di nessun altro. Nessun legame, nessun contratto, può trasformarci in merce. E l’altro? Non ci appartiene. Solo il nostro Sé è nostro – e forse neanche quello.
29-04-2020 (pagina FaceBook)
Immagina una gigantesca scatola di Lego, traboccante di mille colori, forme, possibilità. In quella scatola c’è tutto: il potere di costruire mondi, di piegare la realtà alla tua fantasia.
Da una parte, c’è il modello disegnato sulla confezione: limpido, rassicurante, preciso. Segui passo passo le istruzioni, incastri ogni pezzo come ordinato da mani invisibili. La casetta prende forma, perfetta nella sua prevedibile simmetria. Ma è una casa senza respiro, una gabbia di mattoni plastificati. Quando l’ultimo pezzo scatta al suo posto, il gioco si ferma. È finita. La creatività è stata domata, imbrigliata in un rigido schema. Il tuo cuore, che avrebbe potuto correre libero, è rimasto prigioniero di un disegno già scritto.
Dall’altra parte, però, c’è l’invito a spezzare le regole, a lasciar cadere le istruzioni come foglie morte, e ad afferrare quei mattoncini come fossero scintille di un fuoco ancora da accendere. Qui non esistono limiti, non esistono confini. Puoi costruire un castello che sfida le leggi della gravità, una torre che si perde nell’infinito del cielo, o una creatura mai vista, fatta di pura luce e follia. Ogni pezzo si lega al prossimo in un abbraccio imprevedibile, ogni creazione è un canto di libertà che non smette mai di risuonare. Il gioco non finisce mai, perché ogni nuova forma è solo un inizio, e chi partecipa non è spettatore, ma coautore di un sogno che si espande, si trasforma, vive.
La mente, come quella scatola di Lego, è un universo di possibilità. Perché accontentarsi di seguire mappe tracciate da altri, quando puoi tracciare sentieri nuovi, scrivere storie mai raccontate, creare mondi che nessuno ha mai osato immaginare?
Sii l’architetto del tuo infinito. Non piegare la tua fantasia a modelli già scritti; costruisci mondi che solo tu puoi abitare, e lascia che il tuo spirito voli oltre ogni confine.