“La buona novella”, viene pubblicata nel 1971. De Andrè considerò questa sua opera come “uno dei suoi lavori più riusciti, se non il migliore”.
Si tratta di un album concept incentrato sulla figura di Cristo, che De Andrè considera “il più grande rivoluzionario della storia”, una figura con cui fare i conti (meglio una bestemmia di uno sbadiglio) [1].
La trama dell’album ripercorre i punti cardine della storia di Gesù, analizzata, però, dal punto di vista dell’uomo e non del divino. Non a caso l’opera si apre con un Laudate dominum e si chiude con un Laudae hominem.
I testi dell’album sono ispirati non solo ai vangeli ufficiali, ma anche a quelli apocrifi. Questi testi raccontano aspetti molto umani della vita di Cristo e, per questo, non sono riconosciuti dalla Chiesa e non sono mai stati divulgati. Il timore, infatti, era che le masse non li potessero comprendere e la figura di Cristo risultarne perciò indebolita e, con essa, le istituzioni e le gerarchie ecclesiastiche.
L'album è diviso in due parti: la prima parte (lato A) tratta la vita di Maria e Giuseppe prima della nascita di Gesù; la seconda (lato B) tratta gli eventi intorno alla passione e morte di Gesù.
I temi trattati sono quelli del potere (nei sacerdoti che imprigionano e ripudiano la giovane Maria), dell’amore e purezza di spirito (in Maria e nel suo concepimento), del dolore (nelle madri che assistono all’agonia dei propri figli), degli ideali di uguaglianza e di perdono (nel testamento di Tito).
Due elementi curiosi dell’opera sono la figura nascosta di Cristo e la relazione di Dio con gli eventi.
La figura di Cristo è molto marginale nell’opera. Essa viene presentata e illustrata attraverso le storie degli altri personaggi. Gesù non viene mai esplicitamente nominato, non compie nessuna azione, pur tuttavia rappresenta il cardine principale attorno al quale è imperniata l’intera opera. Il racconto gira attorno alla sua vita senza mai entrarci dentro; sembra quasi un'entità astratta narrata dal dolore umano dei vari personaggi (gli ignari narratori dell’opera).
Il rapporto di Dio con gli eventi, invece, evidenzia un aspetto dell’opera molto particolare e inconsueto. In pratica, tutto il bene e il male cantato nell'album sembrano essere in relazione con Dio (sia Gesù di Nazareth che le autorità che lo crocifiggono si ispirano a Dio; sia Maria che i sacerdoti che la cacciano dal tempio e la sacrificano si ispirano a Dio).
[1] « Quando scrissi "La buona novella" era il 1969. Si era quindi in piena lotta studentesca e le persone meno attente - che sono poi sempre la maggioranza di noi - compagni, amici, coetanei, considerarono quel disco come anacronistico. Mi dicevano: "Ma come? Noi andiamo a lottare nelle università e fuori dalle università contro abusi e soprusi e tu invece ci vieni a raccontare la storia - che peraltro già conosciamo - della predicazione di Gesù Cristo." Non avevano capito che in effetti La Buona Novella voleva essere un'allegoria - era una allegoria - che si precisava nel paragone fra le istanze migliori e più sensate della rivolta del '68 e istanze, da un punto di vista spirituale sicuramente più elevate ma da un punto di vista etico sociale direi molto simili, che un signore 1969 anni prima aveva fatto contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell'autorità, in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universali. Si chiamava Gesù di Nazaret e secondo me è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi.
L'album si apre con un Laudate Dominum cantato in coro, in stile quasi gregoriano, evocante un un’atmosfera solenne e sacrale ma, al tempo stesso, cupa e angosciante, lasciando quasi presagire i contenuti che verranno sviluppati successivamente.
È possibile che il Laudate Dominum sia stato intenzionalmente preferito al Te Deum laudamus per evidenziare, nella sua accezione negativa, il ruolo del potere (dell’autorità) nel contesto sociale. Infatti, la parola latina dominus significa principalmente signore, padrone o sovrano, non necessariamente Dio (a differenza della parola Deus). Quindi, è una parola che indica autorità e potere. Non a caso, l'album riporta una serie di vittime e ingiustizie del potere che si perpetuano nei secoli a causa della distorta mentalità che tende ad accettare passivamente (acquiescenza) e lodare acriticamente l'autorità e il potere.
L’opera terminerà poi col Laudate hominem!
De Andrè veste Maria con gli abiti della succubanza, cioè della donna che subisce le scelte degli altri. Da bambina viene sacrificata a vivere come ex-voto nel tempio. Alla pubertà viene data in sposa a Giuseppe perché non più adatta a rimanere tra le mura del luogo sacro perché la sua verginità si tingeva di rosso.
Le sonorità sono caratterizzate dalla voce solista e sommessa che descrive gli eventi e da un coro che, prima piange l’infanzia tarpata di Maria ma, poi, con la potenza della voce di gruppo, si abbandona in un bramoso e ossessionante desiderio carnale.
Forse fu per bisogno/o peggio, per buon esempio,/presero i tuoi tre anni/e li portarono al tempio./Presero i tuoi tre anni/e li portarono al tempio.
Secondo il protovangelo di Giacomo, Maria fu concepita grazie ad un intervento divino, dopo un lungo periodo di sterilità dei suoi genitori, Gioacchino e Anna. Per questo motivo Maria, invece di vivere un'infanzia normale, viene portata al Tempio: Anna e Gioacchino dovevano adempiere al voto professato.
Ed ecco la prima vittima del potere (quello religioso): una bambina che, per buon esempio e per una scelta religiosa dei propri genitori, viene rinchiusa fra le mura di un tempio, per passare l'infanzia fra cibo e Signore.
Non fu più il seno di Anna,/fra le mura discrete,/a consolare il pianto,/a calmarti la sete;/dicono fosse un angelo/a raccontarti le ore,/a misurarti il tempo/fra cibo e Signore./A misurarti il tempo/fra cibo e Signore.
In questo passaggio De Andrè prova ad immaginare quale potesse essere l’infanzia vissuta da Maria tra le mura del tempio. Si tratta di un’infanzia triste e monotona, dove gli elementi che scandiscono il tempo sono i pasti e le preghiere e, soprattutto, senza alcun affetto a consolare il pianto e calmare la sete (di affetti, gioie, svago, giochi, amicizie… tutte quelle cose che una bambina può desiderare).
Scioglie la neve al sole,/ritorna l'acqua al mare,/iI vento e la stagione/ritornano a giocare./Ma non per te, bambina/che nel tempio resti china./Ma non per te, bambina,/che nel tempio resti china.
Il fluire delle stagioni sottolinea, da una parte, lo scorrere del tempo e, dall’altra, la variabilità ed eterogeneità delle condizioni… in contrapposizione alla vita di Maria, monotona e insipida, senza tempo ne stagioni.
E quando i sacerdoti/ti rifiutarono alloggio,/avevi dodici anni/e nessuna colpa addosso:/ma per i sacerdoti/fu colpa il tuo maggio,/la tua verginità/che si tingeva di rosso./La tua verginità/che si tingeva di rosso.
Alla pubertà Maria viene cacciata dai sacerdoti del tempio perché, in quanto donna, non viene ritenuta più pura e, quindi, espulsa affinché non contamini la casa del Signore. In un contesto storico e sociale maschilista e misogino, la presenza di una giovane donna poteva rappresentare una possibile causa di tentazioni per i sacerdoti, per cui si preferisce allontanare la possibile fonte di peccato piuttosto che curarne le vere cause (celibato).
La verginità che si tingeva di rosso (il menarca, cioè la prima mestruazione) viene ripetuta per due volte e viene accoppiata (nella rima) a nessuna colpa addosso come per sottolineare la completa innocenza di Maria, la cui unica colpa è quella stare per diventare una donna.
E si vuol dar marito/a chi non lo voleva,/si batte la campagna./si fruga la via,/– Popolo senza moglie,/uomini d'ogni leva,/del corpo di una vergine/si fa lotteria. –/Del corpo di una vergine/si fa lotteria.
Pertanto, i sacerdoti (maschi), per sbarazzarsi di Maria, decidono (senza il suo consenso !) di farla sposare, con un vedovo a caso, tirando a sorte.
– Sciogli i capelli e guarda,/già vengono ! –/Guardala, guardala, scioglie i capelli,/sono più lunghi dei nostri mantelli,/guarda la pelle tenera, lieve,/risplende al sole come la neve./Guarda le mani, guardale il viso,/sembra venuta dal Paradiso,/guarda le forme, la proporzione,/sembra venuta per Tentazione./
Guardala, guardala, scioglie i capelli,/sono più lunghi dei nostri mantelli,/guarda le mani, guardale il viso,/
sembra venuta dal paradiso./Guardale gli occhi, guarda i capelli,/guarda le mani, guardale il collo,/
guarda la carne, guarda il suo viso, /guarda i capelli del paradiso./Guarda la carne, guardale il collo,
sembra venuta dal suo sorriso,/guardale gli occhi, guarda la neve,/guarda la carne del paradiso. –
Il carattere incalzante, soffocante, bramoso e, al tempo stesso, umiliante del coro dei pretendenti ricorda molto la condizione della lepre stanata e rincorsa dal branco di cani, desiderosi di sbranarla. Sembra quasi di sentire il respiro affannoso e ansimante degli allupati individui che sbavano di fronte alla bellezza di una giovane ragazza, intravvedendo in lei solo una possibile fonte di piacere. Notare come gli apprezzamenti dei pretendenti si facciano (con l’incalzare del coro) sempre più “carnali” e “sessuali”.
E fosti tu, Giuseppe,/un reduce del passato,/falegname per forza/padre per professione,/a vederti assegnata,/da un destino sgarbato,/una figlia di più/senza alcuna ragione,/una bimba su cui/non avevi intenzione.
A questo punto la musica crolla, come per attirare l’attenzione dell’ascoltatore su un passaggio cruciale della storia.
Giuseppe viene rappresentato come una vittima del destino e viene posto, come figura, in contrasto con l'invadente coro dei pretendenti libidinosi.
Secondo i Vangeli Apocrifi, Giuseppe era un anziano, cosciente non solo della propria età (reduce del passato), ma anche della propria posizione sociale (falegname per forza). Aveva già dei figli e Maria ha l’età dei suoi figli… a voler sottolineare la discrepanza notevole tra l’età di Maria e quella di Giuseppe.
E mentre te ne vai,/stanco d’essere stanco;/la bambina per mano,/la tristezza di fianco,/pensi – quei sacerdoti/la diedero in sposa/a dita troppo secche/per chiudersi su una rosa,/a un cuore troppo vecchio/
che ormai si riposa –.
La musica ed il tono rauco e malinconico del cantautore sembrano quasi mimare la stanchezza (e non solo quella fisica) di Giuseppe. Questo importante passaggio (discrepanza tra la condizione psicologica della giovanissima Maria che si affaccia sulla vita e quella di Giuseppe, malinconico e stanco di essere stanco) prelude ai contenuti riportati ne “Il sogno di Maria”.
Secondo l'ordine ricevuto,/Giuseppe portò la bambina nella propria casa/e subito se ne partì per dei lavori/
che lo attendevano fuori della Giudea./Rimase lontano quattro anni.
Secondo l’ordine ricevuto sta a sottolineare la non volontà di Giuseppe a prendersi Maria, che le viene assegnata da un destino sgarbato.
Il brano si riferisce al ritorno di Giuseppe dalla Giudea (dove si era recato a lavorare). Ci era rimasto quattro anni.
L’introduzione è affidata al sitar indiano (strumento musicale a corde dell'India settentrionale) che genera sonorità tipicamente orientali. Questo, assieme agli altri strumenti, contribuisce alla creazione di un’atmosfera molto suggestiva, nella quale l’ascoltatore viene inevitabilmente catapultato, e con la quale De André si aiuta per dipingere il paesaggio e la condizione psichica del protagonista.
Stelle, già dal tramonto,/ si contendono il cielo a frotte, /luci meticolose/nell’insegnarti la notte.
Se si chiudono gli occhi ci si ritrova, solitari, a cavallo dell’asinello, immersi nella sterminata distesa del deserto, sotto un cielo stellato che pullula di “luci meticolose nell’insegnarti la notte”. Il buio, le stelle, il silenzio, la monotonia e l’immensità del paesaggio, forzano alla riflessione e illuminano (insegnano) la parte buia della vita dell’uomo (la notte), quella parte che le luci, i suoni e le distrazioni diurne non consentono di vedere e neanche di percepire e per avvertire la quale è necessario spegnere i sensi. Infatti, le stelle (le luci meticolose) che guidano il cammino nella notte (nell’insegnarti la notte) sono una metafora del silenzio sensoriale che illumina e guida il cammino degli uomini.
Un asino dai passi uguali, /compagno del tuo ritorno, /scandisce la distanza/lungo il morire del giorno.
Se il sitar genera l’atmosfera orientale, la chitarra riproduce e mima il passo dell’asino, rendendolo quasi percettibile. I versi esprimono una chiara metafora della vita di Giuseppe, stanca, monotona e senza emozioni (per via dell’età), avviata, oramai, sul sentiero della morte (lungo il morire del giorno).
Ai tuoi occhi, il deserto, /una distesa di segatura, /minuscoli frammenti/della fatica della natura.
Giuseppe vede il deserto con gli occhi del falegname e lo immagina come una distesa di segatura (minuscoli frammenti della fatica della natura) derivanti dal lavoro della natura che, come il falegname, modella con fatica le sue creature, segando e levigando la materia informe originaria.
Gli uomini della sabbia/ hanno profili da assassini,/rinchiusi nei silenzi/d’una prigione senza confini.
In questa distesa vasta, sconsolata, tetra e silenziosa (metafora della vita vuota e silenziosa), gli uomini che vi abitano evidenziano un’espressione cupa e inquietante e vivono rinchiusi in una prigione senza confini.
Odore di Gerusalemme,/la tua mano accarezza il disegno/d’una bambola magra,/intagliata nel legno./La vestirai, Maria,/ritornerai a quei giochi /lasciati quando i tuoi anni /erano cosi pochi.
Il pensiero di Giuseppe va a Maria e alla sua infelice condizione di donna, senza infanzia né giovinezza. Con la sua bambola Giuseppe vuole alleviare la sofferenza di Maria, rimediando, in un certo qual modo, al male che i suoi simili (gli uomini) le hanno procurato.
Nell’immaginario di Giuseppe, però, Maria è ancora una bambina e la percepita magrezza della bambolina anticipa l’indigesta pillola che da li a poco Giuseppe sarà costretto a mandare giù.
E lei volò fra le tue braccia /come una rondine,/ e le sue dita come lacrime,/dal tuo ciglio alla gola,/suggerivano al viso,/una volta ignorato,/la tenerezza d’un sorriso, /un affetto quasi implorato.
E lo stupore nei tuoi occhi /sali dalle tue mani /che, vuote intorno alle sue spalle,/si colmarono ai fianchi /dalla forma precisa /d’una vita recente, /di quel segreto che si svela /quando lievita il ventre.
E a te, /che cercavi il motivo /d’un inganno inespresso dal volto, /lei propose l’inquieto ricordo /fra i resti d’un sogno raccolto.
Un cambio improvviso e inatteso di sonorità e melodia fanno da sfondo e cornice a questa che è una delle più belle pagine di poesia di De André.
E’ superfluo e inopportuno commentare questi versi. Qualunque tentativo non aggiungerebbe assolutamente nulla e finirebbe solo col rovinare la superlativa bellezza.
Il brano tratta un argomento alquanto delicato: il concepimento di Gesù. De André, accettando la tradizione di un Giuseppe vecchio, esclude che egli possa essere il padre di Gesù ma non è disposto ad accettare il mistero del concepimento divino, né il dogma della verginità fisica di Maria (in “Ave Maria“, infatti, dirà “femmine un giorno e poi madri per sempre”).
Per questo si inventa un’abile versione, dove, con una delicatezza infinita, descrive il concepimento ricorrendo ad una forma indefinita e altamente poetica, che soddisfa tanto la tradizione religiosa quanto il pensiero laico, dove è possibile leggerci tanto l’annunciazione dell’arcangelo Gabriele quanto l’amplesso carnale più spirituale che sia mai stato descritto (e che difficilmente si lascia cogliere).
L’autore evita magistralmente la terminologia diretta e sopperisce con versi di alta e delicata poesia, su una melodia che predilige, ancora una volta il registro medio-basso.
Nel grembo umido, scuro del tempio, /l’ombra era fredda, gonfia d’incenso
Il brano inizia con un’atmosfera musicale onirica che rapisce subito l’ascoltatore e lo trasla nel sogno di Maria, facendogli quasi percepire l'umidità del tempio, l'odore dell'incenso, il freddo ed il buio di quegli immensi e tetri spazi.
Il tempio è una metafora (spiegata in basso) che si ricollega alla condizione psicologica e sentimentale vissuta da Maria. L’adulterio era considerato non solo un grave peccato ma anche un grave reato, punibile con la lapidazione. A fronte del più dolce e nobile (nonché ingovernabile) sentimento, Maria sperimenta una condizione interiore di immondezza e di peccato che contrasta con la intima e tenera emozione che sta vivendo.
Il tempio rappresenta lo spazio sociale entro il quale gli uomini sono costretti a vivere. Più che spazio fisico si tratta, in realtà, di un contenitore mentale, una sorta di luogo della mente (grembo) abilmente realizzato dal Sistema, entro il quale il “feto” sopravvive senza mai vedere (e, quindi, mai vivere) il mondo esterno, il mondo reale, il mondo vero.
L’ombra, è l’ombra del peccato… fredda, perché capace di spegnere il più caldo dei sentimenti, cioè l’amore … gonfia d’incenso, perché generata dalla religione che gonfia a dismisura l’avversione verso quella naturale pulsione (il sentimento dell’amore) che è creatura dello stesso Dio che lo vorrebbe vietato tra le sue creature.
l’angelo scese, come ogni sera, /ad insegnarmi una nuova preghiera;
Questo passaggio sta ad indicare la non univocità e la non occasionalità dell’incontro: si trattava di una vera e propria frequentazione sentimentale (relazione), tipica degli innamorati.
poi, d’improvviso, mi sciolse le mani/e le mie braccia divennero ali,/quando mi chiese – conosci l’estate – /io, per un giorno, per un momento,/corsi a vedere il colore del vento./Poi, d’improvviso, mi sciolse le mani /e le mie braccia divennero ali,/quando mi chiese – conosci l’estate – /io, per un giorno, per un momento,/corsi a vedere il colore del vento.
Qui la suggestione poetica raggiunge la vetta. La musica la segue e assume un carattere sublime.
Nessun commento si rende necessario se non una sottolineatura che rischia, altrimenti, di non essere colta. Chi convince Maria ad abbandonare, per un giorno, per un momento il grembo del tempio? L’angelo, cioè un essere alato che ha acquisito la capacità di volare e che, quindi, conosce il mondo reale, meglio, la parte migliore di esso (l’estate), il mondo al di là del tempio (dei cancelli) … e lo racconta e lo descrive a Maria, la quale resta affascinata e abbagliata, tanto da lasciarsi sciogliere le mani, metamorfizzarle in ali e con queste volare oltre il tempio (e i cancelli) per vedere il colore del vento (cioè, una serie di aspetti esistenziali che sfuggono alla normale percezione sensoriale e che solo il volo, col suo distacco dalla materia, riesce a mostrare).
Volammo davvero sopra le case,/ oltre i cancelli, gli orti, le strade;/poi scivolammo tra valli fiorite/dove all’ulivo si abbraccia la vite./Scendemmo là, dove il giorno si perde/a cercarsi da solo nascosto tra il verde,/e lui parlò come quando si prega,/ed alla fine d’ogni preghiera/contava una vertebra della mia schiena.
Volammo ”davvero” sopra le case… Maria sottolinea l’oggettività dell’esperienza sperimentata. Più tardi ci ritornerà di nuovo per rinforzare il concetto di realismo (“dove forse era sogno ma sonno non era“).
Poi scivolammo tra valli fiorite… il volo, dapprima attivo (perché generato dal movimento delle ali), diviene
poi un passivo e piacevole planare tra valli fiorite, un abbandono tra correnti ascensionali e discensionali generate dal trasporto emozionale e sentimentale, che li fa scivolare, senza sforzo alcuno, nella fluidità dell’etere.
Dove all’ulivo si abbraccia la vite, stupenda immagine di traslazione simbolica (ulivo-vite=angelo-Maria). Scendemmo la dove il giorno si perde a cercarsi da solo nascosto tra il verde… il “giorno che si perde e si cerca da solo” altro non è che l’io profondo che alberga in ciascuno di noi, la parte più intima e inaccessibile, e il là (dove si perde), rappresenta, invece, la zona di confine tra la vita cosciente e sensoriale e quella dimensione psichica di interiorità (il verde), scavata nei meandri più profondi della nostra mente, che prescinde dalla percezione sensoriale e che solitamente è impenetrabile, anche a noi stessi.
E lui parlò come quando si prega, ed alla fine d’ogni preghiera contava una vertebra della mia schiena… quando arrivarono la dove il giorno si perde, l’angelo le parlò con frasi bisbigliate come preghiere in un contesto di rituale quasi liturgico.
Le ombre lunghe dei sacerdoti/costrinsero il sogno in un cerchio di voci/Con le ali di prima pensai di scappare/ma il braccio era nudo/e non seppe volare:/poi vidi l’angelo mutarsi in cometa/e i volti severi divennero pietra./Le loro braccia profili di rami,/nei gesti immobili d'un’altra vita,/foglie le mani, spine le dita./
Dopo la trascendenza del volo, Maria resta sola. L’amante che, come una cometa, ha attraversato la sua vita è oramai svanito e lei, adesso, si ritrova sola con se stessa. Non ha più le ali di prima (braccio nudo) e non può più volare. Si ritrova imprigionata dai sacerdoti del tempio (i custodi del Sistema).
Questo bellissimo e sottile simbolismo viene utilizzato per sottolineare la distorsione del potere religioso (i sacerdoti del tempio) che si traduce in una prigione fisica (i volti severi divennero pietra) che non solo preclude il piacere del volo (rami immobili al posto delle ali) ma finisce per produrre dolore e ferimento a coloro che da esso vengono toccati (a causa delle spine nelle dita).
Voci di strada, rumori di gente, /mi rubarono al sogno per ridarmi al presente./Sbiadì l’immagine, stinse il colore,/ma l’eco lontana di brevi parole/ripeteva d’un angelo la strana preghiera/dove forse era sogno ma sonno non era /Lo chiameranno figlio di Dio –: /parole confuse nella mia mente, /svanite in un sogno, ma impresse nel ventre.
Piano piano Maria si risveglia catapultata nella realtà precedente. La vividezza del volo progressivamente svanisce ma rimane la consapevolezza di un’esperienza reale e non onirica (forse era sogno ma sonno non era), un’esperienza da sogno ma vissuta in una vita reale.
Di quella fantastica esperienza tutto svanisce nel mondo reale, ma una cosa resta impressa nella mente e nel ventre di Maria: il concepimento di un figlio (una prova concreta e indelebile del realismo esperienziale).
E la parola ormai sfinita /si sciolse in pianto, /ma la paura dalle labbra /si raccolse negli occhi /semichiusi nel gesto /d’una quiete apparente, /che si consuma nell’attesa
d’uno sguardo indulgente.
E tu, piano, posasti le dita /all’orlo della sua fronte: /i vecchi quando accarezzano /hanno il timore di far troppo forte.
Le due ultime strofe ripercorrono la stessa melodia del finale del Ritorno di Giuseppe (E lei volò fra le tue braccia, come una rondine…), per riprendere l’atmosfera lasciata prima del racconto e che la narrazione sembrava aver cancellato.
La condizione psicologica di Maria adesso è tragica: si rende conto del dolore provocato in Giuseppe e, al tempo stesso, è consapevole delle conseguenze derivanti dalla sua esperienza (tra cui, l’accusa di adulterio). La paura l’assale e l’attesa della reazione di Giuseppe si fa carica di emozione e si concentra nella speranza d’uno sguardo indulgente… che non si fa attendere e che De André, con sublime poesia, descrive.
L'Ave Maria chiude il lato A dell’LP. Esso è l'unico pezzo dell'opera pervaso da un velo di serenità. Esso coincide col periodo della gravidanza di Maria. Il registro musicale cambia, passando da tonalità minori ad una tonalità maggiore, da atmosfere cupe e tristi ad un’atmosfera ariosa, gradevole e leggera, generata da arpeggi di pianoforte e organo.
Questo ribaltamento dura, però, solo il tempo di una canzone perché subito dopo (in Maria nella bottega del falegname) l'andamento cupo verrà ripristinato, scandito dal rumore di una pialla e di un martello.
L’Ave Maria è un inno alle donne. Infatti, Maria viene presentata non come vergine e santa ma come simbolo di donna, una donna della terra di cui il Cielo sembra essersi preso gioco per un suo oscuro disegno.
E te ne vai, Maria, fra l’altra gente/che si raccoglie intorno al tuo passare,/siepe di sguardi che non fanno male/ nella stagione di essere madre.
Maria viene collocata in un quadro contestuale dominato dalla curiosità della gente che osserva questa ragazzina incinta. Sono sguardi fatti di pregiudizio, malizia e forse anche sdegno; ma di questo Maria non si preoccupa, perché la gioia di essere madre supera ogni altro tipo di interesse. La consapevolezza della gravidanza diviene una forza prorompente che scherma le donne da qualunque tentativo di ingerenza negativa.
Sai che fra un’ora forse piangerai/poi la tua mano nasconderà un sorriso:/gioia e dolore hanno il confine incerto/nella stagione che illumina il viso.
A questo punto De Andrè effettua un time skip di 33 anni, passando dalla gravidanza al momento in cui Gesù sta per essere giustiziato. L’intervallo di tempo viene quantificato in un’ora per enfatizzare lo scorrere veloce del tempo, in particolare quando si è in una condizione di felicità (nella stagione che illumina il viso) e, per questo motivo, il confine tra la gioia e il dolore diviene sfumato (incerto).
Ave Maria, adesso che sei donna,/ave alle donne come te, Maria,/femmine un giorno per un nuovo amore/povero o ricco, umile o Messia./Femmine un giorno e poi madri per sempre/nella stagione che stagioni non sente.
Femmine un giorno e poi madri per sempre: bellissima espressione che vuole sottolineare la fugacità della fase di voluttà ormonale delle donne che, dapprima sedotte dalle lusinghe della passione, restano poi intrappolate nella condizione di madre (la stagione che illumina il viso, la stagione che stagioni non sente).
Madri che hanno a che fare con l’invisibile, diventando, per questo, invisibili; brave in tutto e brave in nulla, con l’uomo che le ignora perché non riesce a vedere nulla dell’invisibile. Madri che si offrono come nutrimento, madri che vanno a piedi nudi, madri che non fuggono, madri che sperano, madri che continuano ad attendere ciò in cui non credono più, madri che muoiono, madri per sempre.
Con questa espressione De Andrè esprime anche (apertamente e palesemente) la sua contrapposizione al dogma della verginità fisica della madre di Gesù.
Con un salto di 33 anni ci troviamo nella bottega del falegname, in un'atmosfera tutta nuova, caratterizzata dalla tristezza e dal dolore per la crocefissione di Gesù. Il brano rappresenta sicuramente il tratto più drammatico de La buona novella. Il testo inscena il dialogo tra Maria e il falegname (che non è Giuseppe !) che sta costruendo le croci su cui verranno crocifissi Gesù e i ladroni. In mezzo a loro, nel dialogo, c’è la gente (il popolo) che commenta e sottolinea il contesto tragico della rappresentazione.
Il ritmo è cadenzato, monotono, angoscioso. La percussione dei tasti della prima ottava del pianoforte ha la straordinaria capacità di richiamare, contemporaneamente, le tre condizioni che pervadono l'anima di questo pezzo:
- il martello del falegname (braccio del potere) che batte nel cuore della notte disturbando il sonno gente che dorme,
- le palpitazioni di un cuore permeato dal presagio di un triste evento (la morte di un figlio) e
- il rullo del tamburo che accompagna il condannato a morte.
In secondo piano (quasi da sfondo) c’è la condanna di De Andrè alla guerra; il lavoro del falegname diventa una lente attraverso la quale si vedono le ingiustizie e gli orrori delle guerre.
Falegname col martello/perché fai den den./Con la pialla su quel legno/perché fai fren fren;/costruisci le stampelle/per chi in guerra andò/dall'Anubi a Sullemania/a casa ritornò.
Maria, curiosa, domanda al falegname se stia costruendo stampelle per i reduci delle guerre.
– Mio martello non colpisce,/pialla mia non taglia/per foggiare gambe nuove/a chi le offrì in battaglia,/ma tre croci, due per chi/disertò per rubare,/la più grande per chi
guerra insegnò a disertare. –
Il falegname rivela che non sta costruendo stampelle ma le croci per 3 condannati: due ladri che hanno disertato la guerra per dedicarsi a rubare e un sobillatore di folle che propaga idee contro la guerra.
– Alle tempie addormentate/di questa città,/pulsa il cuore d’un martello,/quando smetterà ?/Falegname, su quel legno,/quanti colpi ormai,/quanto ancora con la pialla/lo assottiglierai ? –
Allo scambio di battute tra Maria e il falegname, replica la gente che esprime, con queste parole, la sofferenza del popolo a causa della guerra, implorando il falegname di smetterla.
– Alle piaghe, alle ferite/che sul legno fai,/falegname, su quei tagli/manca il sangue, ormai,/perché spieghino da soli,/con le loro voci,/quali volti sbiancheranno/sopra le tue croci. –
Maria ha un sospetto … e intravede il futuro terribile di suo figlio.
– Questi ceppi che han portato/perché il mio sudore/li trasformi nell’immagine/di tre dolori,/vedran lacrime di Dimaco’»/e di Tito»’ al ciglio/il più grande che tu guardi/abbraccerà tuo figlio. –
Con molta freddezza, il falegname gli conferma che una delle tre croci abbraccerà suo figlio.
– Dalla strada alla montagna/sale il tuo den den/ogni valle di Giordania/impara il tuo fren tren;/qualche gruppo di dolore/muove il passo inquieto,/altri aspettan di far bere/
a quelle seti aceto. –
Dalla strada alla montagna sale il tuo den den: il dolore legato al lavoro del falegname non cessa con la realizzazione delle croci ma continua a perpetuarsi nelle croci stesse mentre percorrono la strada verso il Golgota.
ogni valle di Giordania impara il tuo fren tren: la notizia delle croci (e quindi del sacrificio umano) si sparge in tutta la Giordania e il suo contributo rimarrà dunque nella memoria collettiva, come se fosse stato complice dell’ingiustizia subita da Cristo.
qualche gruppo di dolore muove il passo inquieto, altri aspettan di far bere a quelle seti aceto: d’ora in poi, il mondo si dividerà in due parti, quelli che faranno proprio il dolore della croce (cioè, gli apostoli e i seguaci di Gesù) e quelli che cercheranno di rendere più dolorosa e più pesante la croce di questi [1].
L’offerta dell’aceto è riferita alla spugna imbevuta di aceto offerto a Gesù durante la sua agonia.
[1] Il verso richiama il segno di contraddizione di Simeone (Lc 2,34-35) «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E a te una spada trafiggerà l'anima».
Maria ai piedi della croce è uno scenario ben noto nell’immaginario collettivo. La particolarità di questo brano sta, però, nell’attenzione che De André pone alle madri dei due ladroni condannati con Gesù: voci senza voce, supplizio sommesso e offuscato dal più importante dolore di Maria.
Il lamento della madre di Tito e di Dimaco suona come un penetrante rimprovero alla comune indifferenza per il dolore degli “insignificanti”, quasi fosse, il loro, un dolore minore. Tutto d’un tratto ci accorgiamo che sul monte Golgota, oltre a Gesù e Maria, ci sono anche “altri” che, come Gesù, muoiono in croce e “altre” che, come Maria, soffrono nel vedere il proprio figlio morire. Anzi, per queste madri, dice De André, il dolore è ancora più forte perché coi loro figli, in croce, muore anche la speranza (a differenza di Maria che, invece, sa che suo figlio il terzo giorno resusciterà). La canzone è breve, ma fa molto riflettere.
Madre di Tito
Tito, non sei figlio di Dio, /ma c’è chi muore nel dirti addio.
Questa madre ha capito che vicino al figlio muore il figlio di Dio e con una dolcissima pretesa gli ricorda che nonostante lui sia di livello inferiore, ai suoi piedi c’è qualcuno che muore nel dargli l’addio… “non sarai figlio di Dio ma hai pur sempre una madre che ti ama non da meno”.
Madre di Dimaco
Dimaco, ignori chi fu tuo padre,/ma più di te muore tua madre.
La madre di Dimaco sembra voler riscattare, nell’ora estrema, la storia infamante che l’ha unita a suo figlio. L’assenza di un padre sembra pesare sulla sua responsabilità di madre. Ma questo non le impedisce di appropriarsi del ruolo genitoriale che, con forza, ribadisce nella bellissima espressione “più di te, adesso, muore tua madre”, cogliendo la radice più profonda dell’essenza femminile: la fusione che nasce nel ventre.
Le due madri
Con troppe lacrime piangi, Maria,/solo l’immagine di un’agonia:/sai che alla vita, nel terzo giorno,/il figlio tuo farà ritorno:/lascia a noi piangere, un po’ più forte,/chi non risorgerà più dalla morte. –
Le due madri mettono in discussione il dolore di Maria e sembrano quasi contargli le lacrime: troppe per un figlio che dopo tre giorni tornerà, troppe per chi ha di fronte solo “l’immagine di un’agonia” e non la realtà di un uomo che muore per sempre.
Madre di Gesù
Piango di lui ciò che mi è tolto,/le braccia magre, la fronte, il volto,/ogni sua vita che vive ancora,/che vedo spegnersi ora per ora.
Figlio nel sangue, figlio nel cuore,/e chi ti chiama – nostro Signore –,/nella fatica del tuo sorriso/cerca un ritaglio di paradiso./Per me, sei figlio, vita morente,/ti portò cieco questo mio ventre,/come nel grembo, e adesso in croce,/ti chiama amore questa mia voce.
Non fossi stato figlio di Dio/t’avrei ancora per figlio mio.
La grandezza del finale di questo brano sta nel presentarci una Maria madre "carnale". Il suo dolore è struggente e vibrante di carnalità. E’ l'uomo Gesù che lei piange e che invoca e non il figlio di Dio, e lo dice, quasi disdegnando il destino “divino” del figlio (“non fossi stato figlio di Dio, t'avrei ancora per figlio mio”). Un'asserzione, questa, che sembra essere in contrasto col famoso "Eccomi".
Maria qui è solo madre, donna distrutta e defraudata del figlio, non l'ancella del Signore. Immagine nuova, inedita e coraggiosa che strazia e tocca il cuore perché spogliata di quel misticismo ripetitivo e tipico della religiosità ufficiale.
In risposta alle parole delle altre madri, Maria contrappone il suo dolore “umano”, un dolore vecchio, fatto di spade che trafiggono un’anima dilaniata dall’attesa di un tempo e di una cattiva ma necessaria sorte, decisa da un destino prefissato a cui non può opporsi.
Le parole che Maria riserva al figlio sono davvero struggenti e impregnate di una dolcezza disarmante: l’amore che lei nutre per Gesù è così forte che le impone di chiamarlo “amore”, anche in questo momento … ancora per poco, fintanto che un lembo di vita resiste.
Il dolore provato sotto la croce è profondo perché c’è un figlio in carne e ossa che sta morendo e poco importa se gli altri lo vedono come figlio di Dio… cercando di carpirgli un sorriso a garanzia del Paradiso.
Il dolore di Maria è grande, tanto da traghettarla negli anfratti più remoti della sua anima, dove la sua umanità provata la porta a disdegnare il legame divino e preferire Gesù come “figlio suo” piuttosto che come “figlio di Dio”.
Il testamento di Tito è l’ultimo brano dell’opera. A questo brano De André vuole assegnare il suo messaggio più importante e lo affida a Tito che, secondo i vangeli, è al ladrone buono che fu crocifisso assieme a Gesù.
Il testo ripercorre i dieci comandamenti, analizzandoli, uno per uno, con spirito critico. Nello specifico, De André opera per ciascuno di essi un processo di relativizzazione, facendo notare come i comandamenti religiosi (e, più in generale, le leggi e le regole imposti dal sistema) non possono essere interpretati in modo assoluto e acritico.
Il testamento di Tito è un brano contro le ipocrisie, quelle dei cosiddetti “uomini di fede” che rispettano la legge di Dio ma non esitano a uccidere un uomo. Tito, invece, è un peccatore, ma è l’unico a provare “dolore nel vedere un uomo che muore” perché, non a caso, è l’unico ad aver “imparato l’amore”.
E’ questo il messaggio cardine che De André affida a Tito e col quale chiude l’opera: l’amore è l’unico vero comandamento da insegnare e da assegnare. Ma l’amore che intente De André è un amore non convenzionale, un amore senza confinamenti, ne fronzoli, ne limiti. Per questo, affida quest’arduo compito proprio a Tito, il peccatore per eccellenza, colui che ha contravvenuto a quasi tutti i comandamenti e nel quale, probabilmente, si identifica.
Non avrai altro Dio all’infuori di me,/spesso mi ha fatto pensare:/genti diverse venute dall’est/dicevan che in fondo era uguale./Credevano a un altro’ diverso da te/e non mi hanno fatto del male./Credevano a un altro diverso da te/ e non mi hanno fatto del male.
Non avrai altro Dio all’infuori di me: il brano inizia col primo dei comandamenti e Tito vola subito, con la mente, alle religioni e alle culture orientali che hanno un credo diverso e quindi un Dio diverso. Ma questa diversità, a Tito, non sembra essere un peccato. In fondo, quelle genti diverse venute dall’est che credevano a un altro diverso da te non gli hanno fatto del male e allora dov’è il peccato?
Non nominare il nome di Dio/non nominarlo invano. /Con un coltello piantato nel fianco/ gridai la mia pena e il suo nome:/ma forse era stanco, forse troppo occupato,/e non ascoltò il mio dolore. /Ma forse era stanco, forse troppo lontano,/davvero lo nominai invano.
Non nominare il nome di Dio invano recita il secondo comandamento. Tito si ricollega ad una tragica vicenda personale in cui nominò, addirittura gridò, il nome del Signore, implorando un suo aiuto. Ma Dio era stanco, forse troppo occupato/Forse era stanco, troppo lontano. Quel troppo lontano allude, con estrema delicatezza, all’eventualità dell’inesistenza di un dio. In questo passaggio, Tito evidenzia un palese scetticismo sull’esistenza divina: malgrado il suo grido (notare il rafforzativo rispetto al verbo “nominare” !), non riceve alcuna risposta, alcun tipo di intervento o di partecipazione al suo dolore e allora sì che crede davvero di nominare invano il nome di Dio.
Il richiamo è alle tante storie in cui la carità e la pietà di Dio viene invocata e supplicata con tutta la forza umana possibile, senza che ci sia, però, una risposta da parte di Dio.
Onora il padre, onora la madre/ e onora anche il loro bastone,/bacia la mano che ruppe il tuo naso/ perché le chiedevi un boccone:/ quando a mio padre si fermò il cuore/ non ho provato dolore./Quando a mio padre si fermò il cuore/non ho provato dolore.
Il comandamento obbliga ad un amore incondizionato verso i genitori. Ma Tito, provocatoriamente, si chiede se sia giusto rispettarli anche quando questi palesemente sbagliano. Se un genitore usa la violenza è giusto che il figlio debba baciare la mano che ruppe il suo naso soltanto perché chiedeva un boccone.
La critica è all’ipocrisia di chi finge di onorare i propri genitori e alla falsità di chi piange un genitore che non ha mai amato né onorato. A questo irrazionale e ipocrita comandamento, Tito contrappone la forza della sua sincerità: Quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore.
Il messaggio vuole essere: il rispetto è dovuto a coloro che se lo meritano e non può essere imposto da un comandamento.
Ricorda di santificare le feste./Facile per noi ladroni/ entrare nei templi che rigurgitan salmi/ di schiavi e dei loro padroni/ senza finire legati agli altari/ sgozzati come animali./ Senza finire legati agli altari/sgozzati come animali.
Ricordati di santificare le feste… quello che convenzionalmente è il terzo comandamento diviene, nella narrazione di Tito, il quarto. La critica di Tito a questo comandamento è molto sottile. Egli denuncia l’ipocrisia di chi santifica un gesto (la morte in croce) che non avrebbe mai il coraggio di imitare. E’ facile per noi ladroni santificare le feste ed entrare nei templi che rtigurgitan salmi senza fare alcun sacrificio, senza finire legati agli altari e sgozzati come animali, come colui che ha sacrificato la propria vita per un ideale.
Il quinto dice non devi rubare/ e forse io l’ho rispettato/ vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie/di quelli che avevan rubato:/ ma io, senza legge, rubai in nome mio,/quegli altri nel nome di Dio. / Ma io, senza legge, rubai in nome mio,/quegli altri nel nome di Dio.
Convenzionalmente, questo è il settimo comandamento, ma De Andrè lo mette al quinto posto. La relatività di tale comandamento e l’incertezza dei suoi confini morali viene presentata da Tito con quel forse io l’ho rispettato che la dice lunga sul limite di tolleranza di questo comandamento. Tito ritiene, ad esempio, di aver rispettato questa legge divina benché abbia rubato dalle tasche già gonfie di quelli che avevan rubato. Rubare senza legge (cioè, per necessità) e mettendoci la propria faccia (in nome mio e non ipocritamente nel nome di Dio ) non è da considerarsi un peccato ma l’estrema e spontanea conseguenza del bisogno.
Ancora una volta, De Andrè vuole sottolineare l’errore di assolutizzazione dei principi morali, un errore molto diffuso. I principi morali, nella quasi totalità dei casi, ci vengono inculcati dalla nascita e imposti come delle regole assolute, da rispettare sempre e in ogni caso perché hanno valore universale e, pertanto, sono valevoli per tutti gli uomini e in ogni tempo. In realtà, non è così. Ci sono situazioni in cui il rispetto del principio si traduce in una scelta illogica e paradossale. Ne è un esempio, il caso della madre che fa morire di fame il proprio figlio per non rubare un pezzo di pane ad un avido, crudele e corrotto ricco. Ovvio che in casi come questo il rispetto della legge porterebbe ad una distorsione della finalità del principio morale. Pertanto, le leggi morali non sono da intendersi come principi naturali scritti nel nostro DNA, ma, piuttosto, come delle “guide”, inventate dall’uomo, che servono a garantire una pacifica convivenza civile e il cui fine è quello di rendere “migliore e vantaggiosa” la vita degli uomini.
Non commettere atti che non siano puri/ cioè non disperdere il seme./Feconda una donna ogni volta che l’ami/ così sarai uomo di fede: /Poi la voglia svanisce e il figlio rimane/ e tanti ne uccide la fame./Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore: /ma non ho creato dolore.
Il sesto comandamento riprende l’ordine convenzionalmente accettato. Questo comandamento avvolge una tematica ancora attuale nel mondo religioso: la pratica del sesso non finalizzato alla procreazione. La legge divina vuole che ogni seme dia il suo frutto, in contrapposizione con la volontà di chi vorrebbe soddisfare un desiderio naturale senza però mettere al mondo dei figli. Fecondare una donna ogni volta che l’ami non fa, secondo Tito, un uomo di fede ma fa un uomo che irresponsabilmente mette al mondo bocche che non può sfamare, figli che non può crescere, vite che non può dignitosamente lasciar fiorire. Tito si schiera dalla parte di chi, peccaminosamente, sceglie di non fecondare una donna ogni volta che l’ama ma sicuramente evita di mettere al mondo vite nate già segnate. La sua scelta non tiene conto della giustizia, della fede, del piacere o dell’amore ma della convinta volontà di non creare dolore.
Ancora una volta, mette in guardia dall’errore si assolutizzazione dei principi morali, abbracciando, in questo caso, principi religiosi.
Il settimo dice non ammazzare/se del cielo vuoi essere degno./Guardatela oggi, questa legge di Dio,/tre volte inchiodata nel legno: /guardate la fine di quel nazzareno/ e un ladro non muore di meno./ Guardate la fine di quel nazzareno/ e un ladro non muore di meno.
Il settimo dice non ammazzare”. In questi versi Tito riconosce l’innocenza di Gesù Cristo e condanna l’ipocrisia di chi predica bene ma razzola male. Si riferisce ai farisei che uccidono per difendere la legge che recita non uccidere.
Non dire falsa testimonianza/ e aiutali a uccidere un uomo./Lo sanno a memoria il diritto divino,/e scordano sempre il perdono: /ho spergiurato su Dio e sul mio onore/ e no, non ne provo dolore./ Ho spergiurato su Dio e sul mio onore /e no, non ne provo dolore.
L’ottavo comandamento fornisce a Tito l’occasione per scagliarsi contro i finti perbenisti che conoscono a memoria il diritto divino ma dimenticano la virtù del perdono.
In questo caso, De Andrè evita di ritornare sul concetto di relativizzazione del principio morale (già ampiamente espresso sopra) e ne approfitta, invece, per attaccare l’ipocrisia e l’incoerenza di coloro che rispettano alla lettera le regole divine ma dimenticano la più elementare base del messaggio cristiano: l’amore per gli altri (arrivando, nel rispetto delle regole, ad uccidere).
Sincero fino alla fine, Tito ammette di aver spergiurato su Dio e sul suo onore senza provare dolore alcuno. In effetti, la “vera testimonianza” è fatta di parole e fatti. La verità predicata ma non applicata rappresenta, invece, il vero peccato.
Non desiderare la roba degli altri/ non desiderarne la sposa./Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi/ che hanno una donna e qualcosa: / nei letti degli altri già caldi d’amore/ non ho provato dolore. / L’invidia di ieri non è già finita:/stasera vi invidio la vita.
Non desiderare la roba degli altri/ non desiderarne la sposa… ancora una volta Tito ammette, sinceramente e candidamente, la sua insensibilità verso questo comandamento, denunciando i suoi “errori” nei letti degli altri come un bisogno naturale che ha spontaneamente assecondato senza provare dolore. In ultima analisi, Tito si chiede “perché l’assecondamento di un bisogno deve essere interpretato come peccato?”. Al massimo il peccato lo commette un ipotetico Dio che, nell’atto della creazione, inserisce un bisogno nella sua creatura e, subito dopo, ne richiede il ripudio.
Inoltre, Tito trova le parole anche per confutare la tesi che vorrebbe l’invidia un peccato capitale. L’invidia è la conseguenza involontaria di un bisogno, non è un peccato. Un uomo segnato da una determinata condizione sociale non può non invidiare un altro che sta bene.
Ma adesso che viene la sera ed il buio/mi toglie il dolore dagli occhi/ e scivola il sole al di là delle dune/a violentare altre notti:/ io nel vedere quest’uomo che muore,/ madre, io provo dolore./Nella pietà che non cede al rancore,/madre, ho imparato l’amore.
Tito, sul punto di morte (la sera che viene), è consapevole dei suoi errori (meglio, del suo “non rispetto” delle leggi) e riconosce in Cristo la grandezza dell’uomo capace di avere pietà e di non cedere al rancore. L’amore che Tito, rivolgendosi alla madre, dice di aver finalmente imparato, è l’amore di chi, seppur disobbedito non cede al rancore, allontana l’orgoglio e offre pietà. Il Cristo che si è lasciato crocifiggere per salvare i peccatori mostra il vero amore che non ha niente a che vedere con quello dei comandamenti.
L’unica legge che vale per tutti, per il disgraziato e per il ricco, per l’uomo e per la donna, per le genti dell’est e quelle dell’ovest, è la legge dell’amore incondizionato che include la forza di non cedere al rancore e la maturità di saper perdonare.
D’altronde l’unico comandamento che ha rispettato sempre Tito, malgrado lo sgretolamento del sistema delle leggi divine, è quello di non causare mai dolore agli altri.
Anche nel Laudate hominem viene ribadito che "non devo pensarti figlio di Dio, ma figlio dell'uomo, fratello anche mio". All'inizio del canto liturgico, si sentono le stesse parole che aprono l'album: "laudate dominum". Subito dopo, però, queste parole vengono interrotte da una voce più forte, meno lirica e molto più popolare. È la voce degli umili, la voce del popolo, la voce degli esseri umani, probabilmente quegli stessi cui venne negato l'ingresso in Via della croce.
Il finale Laudate hominem è la conclusiva celebrazione di un Gesù solo uomo, “Non posso pensarti figlio di Dio; ma figlio dell’uomo, fratello anche mio”.
Si capisce, quindi, che in De André è presente, in qualche misura, una forma di spiritualità, ma viene vissuta in un'anarchia religiosa impossibile da inquadrare nei comuni canoni che conosciamo, tanto meno, in quelli delle religioni positive. De Andrè è sempre stato considerato ateo e si è sempre dimostrato chiaramente contrario alla Chiesa. Lui stesso preferì precisare, nel corso di un'intervista: Se dovessi definirmi da un punto di vista religioso, direi di considerarmi un animista. Credo, cioè, che esista uno spirito, un'anima in tutti gli uomini, gli animali, i vegetali e gli stessi oggetti, per il fatto stesso che tali sono o sono venuti in contatto con lo spirito di un essere vivente. In alcuni casi questi oggetti sono stati addirittura costruiti dagli esseri viventi e ne riproducono in qualche maniera l'essenza spirituale. [...] Questo mio animismo non è da confondere con l'immanentismo di Spinoza, il quale, partendo dal concetto, o meglio dalla fede di Dio, asseriva che Dio stesso è in tutte le cose. Io non mi pongo il problema di Dio, ma quello dello spirito che gli esseri viventi dimostrano di avere attraverso il loro comportamento. E la comunicazione tra questi esseri dotati di spirito con le cose inanimate che conferisce loro una porzione di spirito o di più spiriti. Tutti questi frammenti contribuiscono a creare un grande spirito, un grande respiro animistico di cui tutti facciamo parte. Quando parlo di Dio lo faccio perché è una parola comoda, da tutti comprensibile, ma in effetti mi rivolgo al Grande Spirito in cui si ricongiungono tutti i minuscoli frammenti di spiritualità dell'universo.